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298 IL BUON CUORE


Sembra quasi che in questa nenia gli uomini si addormentino e camminar per le vie e udire d’ogni parte, da cento cafana rigurgitanti, lo stesso canto produce un’impressione strana. Forse questo popolo di guerrieri ricorda troppo le sue glorie militari e le dure battaglie combattute; e si riposa. E nel riposo, nella tregua oziosa, dimentica le nuove battaglie pacifiche che deve combattere per aggiungere ai magnifici ricordi del passato la gloria di nuove conquiste moderne, più civili e più utili e delle quali un popolo — sia pure minuscolo come il Montenegro — non può fare assolutamente a meno.


L’omaggio del popolo.

Ho assistito oggi, verso il mezzodi, mentre il sole maggiormente folgorava, ad uno sfilamento di autorità e di semplici cittadini, di soldati e di stranieri, di donne e di fanciulle dinanzi alla casa del nuovo re. Stamane, di buon’ora, Nicola con Milena, soli, senza i figli e senza il corteggio dei dignitari e del corpo diplomatico, già si erano recati nella piccola cappella rustica gettata là sul piano di Cettigne, sotto il monte, nella quale cinquanta anni addietro il forte soldato aveva impalmata la donna bellissima, cantata da poeti e immortalata, nei suoi quadri, da Cermak, il famoso pittore serbo; ed era riuscita una cerimonia semplice, toccante e tanto più caratteristica perchè in questo ambiente, ogni cosa gentile, nel contrasto di tanta forza maschia e rude, assume un maggior rilievo. Ma più tardi, dopo il rito d’amore e di pietà, re Nicola ha voluto vedere tutto il popolo accorso da ogni parte del suo regno per rendergli omaggio; il popolo è passato sotto il balcone urlando, gridando, tirando dei baci ai sovrani che sorridenti lo guardavano e dicendo ognuno una frase di saluto, un complimento e una esortazione al re a far sempre cose maggiori per la grandezza del Montenegro.

Sfilano i gruppi dei contadini e dei pecorari dalle ampie vesti villose; sfilano i cittadini di Podgoritza e di Niegosch negli abiti nazionali rossi e d’oro; sfilano gli albanesi del Montenegro, figure strane che nel quadro vivo di tutto questo immenso campionario di costumi orientali si distinguono per i loro corsetti scuri per le ampie vesti di tela bianca; sembrano tante ballerine che da un momento all’altro si debbano lanciare nel vortice di una danza. E agli albanesi seguono i turchi di Dulcigno e di Scutari con i fez e con i turbanti bianchi, dalle iridescenti vesti di seta e dalle armi d’argento finemente cesellate, cariche di pietre preziose.

Spicca tra gli altri un moro d’inverosimile altezza, meravigliosamente vestito, dalla faccia camusa, quasi bestiale. Domina il gruppo del suoi amici e lo guida. Appena giunto dinanzi al re dice: «Nicola, sono uno dei tuoi pochi sudditi neri; t’auguro che i tuoi domini si estendano fin nell’Africa, fin dove è la culla che mi generò. Affila bene le armi, o padre» E dette queste parole ha intonato un zivio formidabile, con una voce cavernosa alla quale ha fatto eco tutta la folla.

E la folla è continuata a passare. Sono circa quarantamila persone alloggiate in una città che ne contiene appena cinquemila. Passano altre tribù; gruppi di donne, dal petto ricoperto di perle e d’argento,
fanciulli che urlano disperatamente, popes dalla lunga barba nera, dalla capigliatura cadente. Poi, finalmente, vengono i soldati.


I soldati della gloria.

Il re è sempre affacciato al balcone con a fianco Milena. Passano le prime compagnie dei fantaccini dalle rudi e un po’ brutte uniformi russe, e poi vengono i corpi speciali e poi le armi scelte ed in fine appare di lontano il gruppo dei veterani del 1860; quelli che erano sotto le armi quando Nicola salì al trono. Il ministro della guetra, Martinovich, ha voluto richiamarli a Cettigne per dare al quadro militare di questi giorni una magnifica pennellata di colore e per rievocare nell’anima del re i ricordi migliori e più gloriosi....

Poveri vecchi cadenti! Portano a stento il fascio delle armi dinanzi alla cintura e son carichi di medaglie — non di quelle lucide dell’odierna commemorazione — ma di vecchie medaglie annerite, di vecchi segni di gloria. Alcuni sono zoppicanti, altri camminano con l’aiuto del bastone, o appoggiati al braccio di giovani donne; ed hanno tutti lo sguardo vivo e lucido per l’emozione e per il ricordo. Uno di essi è cieco e brancola innanzi contro il chiarore del sole e sembra la figura sacra di un eroe tutelare; ha i capelli bianchissimi spioventi sulle spalle e due rosse cicatrici sulla fronte. Tutti lo guardano, gli toccano con la mano il lembo della zimarra verdastra e dicono parole di ammirazione.

Saranno cento fra tutti questi vecchi soldati e rappresentano tutta la storia militare del nuovo Stato oggi assurto alla dignità di regno. Il popolo, nella sua incoscienza, capisce tutto ciò ed un fremito percorre da un capo all’altro la piazza che è nera di folla fluttuante e rumoreggiante.

Ma Nicola è l’uomo della situazione e comprende che, in simile circostanza, con un niente, con un semplice gesto, del resto naturale e sincero, si possono moltiplicare le simpatie che già gode. Ed ecco che, ad un tratto il re si ritira dal balcone, scende rapidamente al pianterreno del palazzo e corre sulla via, in mezzo alla folla, verso il gruppo dei veterani. I poveri vecchi circondano il «gospodar» e lo abbracciano, lo baciano, piangendo, delirando d’entusiasmo e lo soffocano di nuovi abbracci e di nuovi baci, mentre tutta la fiumana del popolo che circonda, non urla più, non applaude ma singhiozza, ma piange di commozione — nella visione eroica di tutta la gloria del Montenegro — mentre di lontano una musica militare scandisce le note cadenti e tristi dell’inno che un vecchio poeta serbo cantò, per la prima volta, sui campi di battaglia e che poi divenne l’inno della nazione....


Il comizio di re Nicola.

Questa giornata di tripudio è interminabile. Occorre qualche minuto di sosta e mi allontano dalla «Dworska ùlitza» — la via del palazzo — per ritornarvi più tardi, dopo qualche ora.

Lo spettacolo è cambiato: niente più cortei, niente più discorsi; ma si balla. Si balla sotto le finestre del