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IL BUON CUORE 371


Educazione ed Istruzione


Una casa ed una signora


Il sole scialbo d’ottobre muore sull’Aia e le piccole case, dalla infinita variazione di rosso fra i verdi alberi enormi degli ampi viali, fra i canali dai riflessi violetti nel tramonto, fra i leggeri vapori che salgono dalla terra alla prima frescura della sera che s’avvicina, si velano, perdono i contorni definiti, si confondono: alberi, case, canali non hanno più il colore vivo che hanno avuto nel meriggio ma, scolorandosi a grado, acquistano una tinta più delicata e più armonica piena di malinconia, piena di sogno.

Nelle tele di Rembrandt c’è una luce speciale che illumina le figure che il grande artista ha create, una luce misteriosa che avvolge quelle figure profondamente realistiche ed innalza quel realismo ad un pensiero universale ampio e melodico pieno di musica, pieno di poesia, pieno di sentimento insomma. I critici d’arte si sono molto affannati per definire questa luce, che non si trova nelle tele di nessun altro grande pittore, e l’anno chiamata «la luce del genio di Rembrandt» e, senza dubbio, è quella la luce di un genio particolarissimo; ma io credo che sia anche la luce speciale di questo paese fantastico, la luce dei tramonti sulle lande cupe di sterpi e spini bruni, sulla pianura infinita che sembra un tappeto di velluto, sui boschetti di alberi annosi che mal nascondono le torrette dei piccoli castelli dal color rosso bruno, sulle dune giallastre macchiate qua e la dall’erbe che trattengono la sabbia contro la furia del mare spumoso. Perchè il raggio ultimo del sole leggermente sanguigno, attraverso ai vapori violetti della notte che viene, rinfrangendosi Su mille cose specialissime, crea una luce inverosimile, la luce olandese.

Rembrandt, che mai non volle — e di proposito — vedere il nostro cielo e il nostro mare, chi sa quante volte l’occhio, dello sguardo largo e comprensivo — dopo avere estatico mirato lungamente — chiuse e, curvando la fronte, posò sulla palma, mentre, nell’ora dolorosa dal tramonto, nell’anima sua piena di pianto, si colorivano le immense figure di Saul, di David, di Omero!

Misteri profondi dell’arte, baratri sconfinati dell’anima umana che la critica gelida invano s’affanna a penetrare. Si piange, si piange, si piange. Perchè si deve parlare?...

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Alcune dame si riuniscono, sul tramonto, in questa luce olandese, nella casa d’una di esse, la signora Van Alphen, una veneranda signora dall’ampia fronte su cui gravi rughe ha segnato il pensiero, dall’occhio ancor giovane, dai capelli bianchi, dall’alta figura robusta e maestosa: una dogaressa.

Perchè questi olandesi hanno tanto di veneziano in loro?

La veneranda dama sta tutta sola nella sua piccola casa piena di tesori, accumulati in una vita alternata

di studio e di viaggi. Un lungo lavoro paziente per affinarsi l’anima al gusto sovrano del bello, nello studio; una ricerca ansiosa per il mondo per ritrovare nell’opera concreta degli artisti la fine aspirazione del suo sentimento, nei viaggi. Studio paziente, ricerca ansiosa. La vita di questa nobile donna è sintetizzata nelle brevi stanze della sua casa. Qui tutto è sobrio, tutto è prezioso: dai tappeti che coprono il pavimento, alle cortine leggere delle finestre, al pesante arazzo della porta. L’occhio abituato vi scorge la mano sapiente che ha, senza posa, mutato e rimutato, cambiato, aggiustato, modificato. Tutto è perfetto ora. Le pareti sono coperte di quadri francesi e olandesi specialmente. C’è u un tramonto sulla landa» pieno di nostalgia, ci sono tele di fiori, di frutta, paesaggi marinari del celebre Mesdag.

Ma, su di un marmo rosso, fra la morbidezza pittorica delle stanze vi colpisce qualcosa di solido che risalta per le linee rigide e definite: in un breve spazio c’è, in bronzo, la rievocazione di Roma antica: le colonne e i frontoni ancor saldi del Foro sono qui in miniatura riprodotti. E più in là, dietro un vetro che ha dei riflessi iridiscenti, brillano ori, gemme, ricami: c’è un calice d’oro, uno scettro pastorale, una mitria gemmata, sacri indumenti tutti a fiorami d’oro e seta. Dal vetro chiuso un non so che di funereo si riverbera sulla stanza con il luccichio di quelle cose, come se l’anima del Pastore morto aleggi ancora attorno a ciò che fu suo nella vita terrena.

Il lume dell’oro si confonde con quello argenteo di vasellami settecenteschi posti dietro a un altro vetro e che sembrano delle trine, dei merletti di metallo variamente intrecciati. Appartennero ad una nobile famiglia romana: ora son qui, in un angolo silenzioso, e mandano una bianca luce timida, quasi spauriti dal mondo nuovo che vedono.

Ma, in altra sala, tutto è olandese ed è del più bel secolo dell’Olanda. Tutto è chiuso da un ampio stipo di legno intagliato variamente, che copre, in giro, tutte le pareti a varia altezza e, fra gl’intagli, spiccano i dorsi di libri dalla preziosa legatura in oro, nello stile.

Un quadro dello Steen è lì a marcare lo schietto carattere della stanza: un uomo del popolo siede sgarbatamente col petto contro la tavola avanti ad una scodella fumante, la moglie, con il petto discinto e con le maniche rimboccate, accovacciata su di uno sgabello, è intenta a lavare qualche utensile: tutto è sguaiato nella stanza buia; fuori forse dal cielo nuvoloso dell‘O1anda, imperversa il maltempo. Il genio umoristico dell’artista ha colto l’uomo nel momento in cui soffia, con le guancie gonfie, sul cucchiaio di minestra che divora con gli occhi non potendolo con la bocca, che si scotterebbe: attraverso al comico c’è un profondo monito allo istinto bestiale del popolo.

Senza volerlo, l’immagine maestosa della padrona di casa mi si presenta agli occhi, seduta in questa sala, nel silenzio della notte, avanti ad uno di quei libri dorati alla luce fioca di un’antica lampada; e ancora, in questo ambiente del più puro seicento olandese, mi torna il sogno veneziano d’una dogaressa del cinquecento.