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IL BUON CUORE 375


SOCIETA’ DI MUTUO SOCCORSO

Fra i Ciechi di ambo i sessi

Il movimento di associazione fra i membri di una medesima classe e professione, caratteristico dell’epoca nostra, si è fatto sentire anche nella classe dei ciechi.

Gli Istituti provvedono alla loro istruzione, e fra questi tiene certo un posto eminente l’Istituto di Milano, colle quattro istituzioni raggruppate che lo costituiscono, l’Asilo Infantile, l’Istituto, l’Asilo Mondolfo, il Laboratorio Zirotti, coll’aggiunta di un limitato patronato che l’Istituto esercita con opportuni sussidi a favore di Ciechi già usciti dall’Istituto.

Era però naturale e commendevole che i Ciechi adulti d’ambo i sessi, usciti o non usciti dall’Istituto, pur mantenendo cordiali rapporti col Consiglio e colla Direzione dell’Istituto, si collegassero in Società, per promovere il mutuo soccorso fra di loro, ed escogitare i mezzi che meglio provvedessero al vantaggio ed alla elevazione della classe.

La società di mutuo soccorso già costituita, ha per presidente il signor Ascenso Antonio, cieco, organista nella Basilica di S. Nazaro Maggiore, e maestro di piano nell’Istituto dei Ciechi, persona che alla coltura della mente unisce la probità e il criterio della vita.

A favore di questa Società si tenne domenica, 14 corrente, nel salone dell’Istituto dei Ciechi, gentilmente concesso dal Consiglio dell’Istituto, un concerto di musica vocale e istrumentale, eseguito quasi completamente da maestri e allievi ciechi. Il salone era affollato. Un bacile alla porta accoglieva le offerte spontanee degli intervenuti. I pezzi furono vivamente applauditi.

Fra la prima e la seconda parte del concerto, il professore Giuseppe Nolli, già noto per pregevoli scritti in versi e in prosa, lesse un discorso, che qui sotto pubblichiamo, nel quale, con vivo entusiasmo e con frase alata, inneggiò alle sorti della Società di mutuo soccorso, che rappresenta pei ciechi una nuova forma di assistenza, che li porta nel concerto della comune vita sociale.

Signore e Signori.

Parlare così, fra la prima e la seconda parte di uno scelto programma musicale, mettere la propria parola fredda, come un cuneo fra il piacere gustato e il piacere imminente, non è certo la cosa più gradita che si possa immaginare, così per il dicitore come per il pubblico.

L’onda di suono, appena rinchiusa dentro un crosciare sincero d’applausi, è ancora troppo nell’anima vostra, perchè di colpo ve ne possiate staccare per accogliere un’onda più dimessa, la prosa.

Ricordate ancora, per un attimo, l’armonia che è salita dalla tastiera, il canto che vi ha toccato il cuore e vi ha velato lo sguardo, ricordate le altre voci diverse che, a tratti, sono sembrate suppliche, lacrime, allegrezze, preghiere; e tutte le molteplici effusioni degli strumenti in cui vi parve di sentire non il tocco di una corda o il sapiente strisciare di un archetto, ma lo snodarsi e il defluire mirabile dell’anima e della passione del compositore, rivelate dall’anima e dalla passione degli interpreti.

Abbandonatevi al ricordo e sia questo un momento musicale che vi intenerisca. Io ho bisogno che voi riceviate questa mia parola, che non è musica, ma che
deriva dalla musica, col sentimento medesimo col quale avete ascoltato fino a pochi momenti or sono: ricordate dunque intensamente, acuite lo sforzo così, che il ricordo vi si tramuti in una riudizione, e vi muova dentro lo stesso entusiasmo che vi ha suscitato dapprima, e lo stesso impeto per il quale, più d’uno di voi, se avesse avuto a portata della mano, la mano che aveva fatto gemere i tasti, l’avrebbe stretta in un consentimento pieno d’amore; per il quale, più d’una di voi, gentilissime, se avesse avuto a fianco la cantatrice che ha così soavemente modulato, trillato, e l’artista che ne ha tenuti in così grande dolcezza, le avrebbe baciate sulla bocca, in un consentimento pieno di sacrificio.

La musica che avete udito ora è poco, vi ha magnificata la poesia della vita, vi ha condotto in una cerchia ove le contingenze meteriali si smorzano e scompaiono.

Io faccio a rovescio: colla mia parola ve ne soffoco dentro il ricordo e vi ricaccio nella vita; nella vita che, non illudiamoci, avrà un’essenza abbellita di musica, ricamata di sogni, profumata, miniata, infiorata; ma sarà sempre contesta di dolore, sopra una trama di spine.

Perdonatemi, è necessario.

Ho detto che la mia parola si sarebbe immessa, come un cuneo, fra la prima e la seconda parte pel programma; ed un cuneo, penetrando, sgretola sempre qualcosa, io distruggo ora la vostra impressione, ma una lusinga mi sorride e mi sostiene, quella di far breccia, una buona, una grande breccia.

O voi avete già capito dove mira questo mio parlare, sapete già, prima ch’io venga alla conclusione, quale sarà la mia preghiera finale, e forse immaginate già il razzo d’effetto, col quale si è abituati a chiudere simili discorsi, e avrete la curiosità di farne un parallelo con altri analoghi, o quasi; ma quello che non sapete ancora, e ch’io ci tengo ad annunciarvi, è la sincerità pulsante nelle intenzioni e nelle parole di questo mio rapido esporre e il desiderio, permettetemi la frase che dice tutto un po’ ruvidamente, che, parlando a voi di necessità di ciechi, io non debba aver a che fare con dei sordi.

Ma dappertutto sono annunciati trattenimenti di beneficenza, fiere a sollievo di miserabili, opere pie per vecchi, soccorsi per bimbi e madri ed orfani, non una branchia, forse, della vasta miseria che simile ad una piovra immensa allunga i suoi tentacoli dovunque, è stata dimenticata dalla carità, suddivisa nelle sue forme più varie: non una forse. Ma qui, o signori, la cosa è essenzialmente diversa, non è la carità che vi si domanda, nè la pietà che si implora; bensì la cooperazione e la fratellanza per il divenire di un’opera che ha in sè tanto di bontà e d’arditezza, quanto certamente non ne può capire nessun’altra opera del genere.

Si tratta di una società di mutuo soccorso fra ciechi e semi-ciechi d’ambo i sessi, ed è la prima volta, ch’io mi sappia, che un simile tentativo di communione fra disgraziati viene esplicato e si mette da sè, con bel gesto e con sicura coscienza, a suo posto, nella vita che ogni giorno si vive, faccia a faccia con tutte le altre