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20 IL BUON CUORE


remo sempre la nostra linea, la fiamma prima che illumina la sua mitra e la sua croce cosicchè, sia che lo si consideri privato o che si notino le sue giornate di lavoro episcopale, una cosa sola appare sempre come ispiratrice della sua virtù e delle sue opere grandiose, lo spirito di pietà. Ciascun’anima, come ciascuna sinfonia, ha una sua nota di richiamo spirituale, un «leit motif» a guisa di una nostalgia per cui si volge sempre da quella parte; come avviene d’un vaso sacro, diremmo così, in cui dopo che un balsamo prezioso e di forte essenza vi è penetrato, tutto ciò che vi si getta va a profumarsi e ne viene poi a spandere sempre un ricordo del nardo primiero.

Egli istituisce Seminari, ma badate la nota di fondo che vi domina: la confessione, la comunione, la meditazione.

Le sue visite pastorali, specialmente quelle montane, sono un prodigio di attività e di energia di volontà: esamina i registri parrocchiali, detta norme per il clero e per il popolo, consacra chiese, finisce inesorabilmente abusi inveterati, ma la divina passione del suo cuore come un fuoco arcano muta in oro quello che senza di essa sarebbe stato solamente acciaio o scheggia di ferro. Egli passa le ore della notte davanti al tabernacolo e si addormenta col capo stanco reclinato sulle reliquie dei martiri.

Egli riforma ordini religiosi, suscita in anime ribelli tempeste infernali che urlano vendetta, scomunica anche il governatore di Milano; non si piega il forte, è imperterrito; ma seguitelo nel ritorno: in casa si butta in ginocchio e prega per chi l’odia, e spesso ha la gioia di vedersi tra le braccia pentiti quei che una fredda volontà avrebbe condannati per sempre alla ribellione. Chi non sa la guerra mossagli dai canonici della Scala? ma chi non piange di consolazione ricordando con quanta contrizione gli chiesero perdono?

I suoi sei Concilii provinciali vinsero difficoltà che parevano insuperabili, ma tutte le vergini sacre e tutte le anime più belle erano supplicate prima da lui, che rendessero piane le vie con la preghiera.

Quando egli va a Roma per gli interessi della sua diocesi o di tutta la Chiesa, fissa nel suo itinerario certe soste volute dalla sua pietà. In Camaldoli passa alcuni giorni in un cremo; su l’Alvernia ricopia gli slanci di S. Francesco; a Loreto ricorda la sua divozione di fanciullo a Maria. Per questo, allorchè i cardinali lo vedono entrare in Roma, notano sul suo viso un certo fuoco che li obbliga a guardarsi esterefatti come per la venuta di un essere celeste.

Chi non sa delle sue peregrinazioni a Torino per visitarvi la santa Sindone? de’ suoi viaggi per onorare reliquie di santi?

Certe volte la sua preghiera lo assorbiva così che le redini della cavalcatura gli cadevano dalle mani le quali si congiungevano come per istinto naturale e si appuntavano sotto il mento, mentre il capo si sollevava per un’ondata di divino amore che pareva più non contenerglisi nel petto. Da Milano a Cassano, depose Mons. Speciano, vescovo di Cremona, lo si vide cadere insieme con la mula, e da Como a Milano un’altra sera
verso la festa d’ognissanti, rimase lungo tempo in un fossato dove i servi lo rinvennero sorridente e in preghiera.

Milano conosceva bene lo spirito del suo arcivescovo e quando l’abbaino del suo palazzo non mandava luce, si sapeva che egli era a passare la notte sulla tomba di S. Ambrogio, come in Roma vegliava nelle catacombe con le mani intrecciate su i sarcofaghi dei martiri. Si leggano le sue lettere ai Papi, ai Vescovi, ai Re, alle Regine e specialmente a qualcuna di esse molto infelice, ai principi, e si vedrà come palesemente o velato tra riga e riga il suo cuore non invitasse sempre al divino commercio dell’uomo con Dio mediante la preghiera.

Quando i Turchi minacciano l’Italia e le acque di Lepanto riflettono sinistramente la mezzaluna che agogna sostituirsi alla croce, il Papa si rivolge alle preghiere di Carlo: pregate, pregate, egli dice con una espressione che lacera il cuore. E Carlo sale il pergamo, chiama Milano alla orazione, discende, si mette a capo di processioni per la città, di giorno, di notte, finchè la storia deve segnare: la mezzaluna è andata in fondo al mare.

Ma dove trovare uno spettacolo più grande e una prova più bella e più forte dell’esistenza di questa divina passione dominante in San Carlo, che nei dì neri neri della carestia e della peste che flagellarono la nostra Milano? È vero, la carità del santo pare a prima vista che sia stato il rimedio di tanta sciagura. Io oso dire che fu invece la sua preghiera. Ah vi sono sventure che l’uomo per quanto grande, non saprà mai sanare. Il principato d’Oria passava nelle mani dei poveri; gli accattoni vestivano giubbe fatte con le cortine di seta e con la porpora dell’arcivescovo; una fodera di materasso era la coperta del Conte Cardinale; il Lazzaretto era diventato l’episcopio del santo; egli non dormiva più, non mangiava quasi più nemmeno i pochi lupini e il tozzo di pane ammollito nell’acqua che aveva formato la sua mensa consueta; egli aveva scongiurato i generosi a sacrificarsi, s’era votato egli stesso alla morte; ma, o mio Dio, che è mai anche questa serie incalzante d’eroismi, se il cuore che li fa non se ne serve per rendere più cara a Voi la preghiera? Chi può cessare il flagello, maturare i grani e chiudere le piaghe? S. Carlo lo sapeva e poichè il momento era estremo, la preghiera doveva assorgere all’ultima sua efficacia, doveva mutarsi in sacrificio. Vedetelo, vedetelo il santo a piedi nudi, con un sacco indosso, con una fune al collo a guisa di una vittima che cerchi l’altare su cui immolarsi; egli porta con le mani coni mosse la croce del suo duomo ed è diventato l’incarnazione della preghiera. In ogni piazza, a ogni crocicchio delle vie fa innalzare un altare. Milano è diventata un tempio.

Dio non può resistere a queste scene. Dio pregato viene; e là, dove le lagrime più desolate bagnavano la terra mutata in giaciglio, l’estate seguente fa mietere le spighe e l’autunno vendemmiare le uve che i sana ti portano a Cristo e al suo vescovo per farne specie per l’Eucaristia che li aveva nutriti e pane e vino pei poveri tra i quali un giorno essi erano annoverati.