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92 IL BUON CUORE


piedi ben costrutti sembrano afferrare tenacemente le pietre su cui piantano a sostenere il corpo sfinito dagli anni; le gambe stecchite, sapientemente modellate, il torso alquanto ripiegato su sè stesso, l’un braccio regge un crocifisso a cui l’austera testa del Santo guarda pietosamente; coll’altro, un sasso nella mano, si batte il petto. È il San Giovanni del Donatello, mirabile scultura in legno alquanto deturpata da una monotona verniciatura e da un cencio ingessato inutile che gli fascia i fianchi; nella stessa sala l’arguto San Giovannino dal profilo fino e nervoso dì adolescente fiorentino dall’esile petto, in marmo, altro capolavoro di Donatello, poi due fiere piccole figure di santi di Jacopo della Quercia, una terra cotta di Andrea della Robbia, un’altra di Begarelli, due belle teste dipinte da Dosso Dossi malamente verniciate, una bella pietà di Melozzo da Forlì e lo strano e suggestivo trittico di quel Leonardo Scaletti così personale nella interpretazione delle sue figure, vi è un santo frate di una estrema magrezza che vi affascina per la penetrante espressione di misticismo e i quattro fanciulli musicisti attorno al trono della Vergine hanno movenze e attitudini insolite. Lo stesso Scaletti vi colpisce obbligandovi a fermarvi davanti al ritratto di Austorgio III Manfredi, biondo profilo di fanciullo aristocratico, ingenuo pur con aria di precoce sensualità.

Passando rapidamente pel grande salone dove troneggia la statua dell’accademico Minardi Faentino, cui i soci della venerabile accademia di San Luca vollero gratificare del magno titolo di principe dei disegnatori, vi si può osservare quanto malamente vi sia stato collocato il grande quadro di Guido Reni, già ai cappuccini, per altro abbastanza bene conservato, e nel quale la figura di San Francesco è un vero capolavoro di espressione e di pietà. Nello stesso salone emerge un vigoroso ritratto di Sebastiano del Piombo, alcuni del Bronzino, una «Salomè» attribuita al Tiepolo e molti altri quadri di varie scuole dal 1600 al XVIII secolo, poco visibili per la cattiva disposizione di ambiente di luce e resi ancor meno osservabili da una vera corazza di lucida vernice che non riesce a mascherare sufficientemente i larghi ritocchi dei soliti scorticatori e rabberciatori di antichità.

Più oltre un’altra bella sala vi rallegra con le tavole di Marco Palmezzano, di G. B. Utili, di Giovanni da Oriolo e di altri Faentini della rinascita, poi la sala delle ceramiche antiche e moderne alla quale accennai già e quella della collezione dell’intarsiatore Gatti, dai mirabili intarsi in avorio e pietre dure, artista veramente raro e prezioso che in fondo ai più brillanti minerali e alle più esotiche pietre sapeva leggere e scrutare i più profondi riflessi d’oro, di opale, di luce e di fuoco; vi sono anche alcune poche antichità di scavo con bei vetri iridescenti, e il museo Torriceliano con autografi e cimeli preziosi, e una sala dedicata alle memorie Faentine del risorgimento nazionale. Infine in un lungo corridoio, chiamato sala di Achille per una assai accademica e poco omerica statua di Achille del Colina Graziani, fra stampe di vario valore, alcuni disegni, parecchi quadri mediocri, qualche antichità
Romana e medievale emerge il grande e bel gruppo in terra cotta di Alfonso Lombardi da Ferrara proveniente dalla soppressa chiesa di San Giovanni, rappresentante appunto San Giovanni Battista, la Madonna in mezzo e S. G. Evangelista, all’altro capo del corridoio alcune suggestive tavole di Pace da Faenza, e di altri giotteschi.

La rapida visita parrebbe finita, ma il custode vi avverte esservi pure una sala dell’arte moderna. Un freddo glaciale vi penetra fino alle ossa entrandovi. Assai disordinatamente vi sono accatastate opere del Minardi, del Piancastelli, del Graziani, del Colina, del Tomba ed altri più o meno insignificanti; vi domina una vasta copia su tela dell’affresco di Gerolamo da Treviso fatta eseguire, dicono, perchè ne resti memoria ai posteri quando l’originale della Commenda abbia a essere, Dio guardi! distrutto. Speriamo non abbia a succedere o quanto mai ne sia prima distrutta la copia, onde il buon nome» del Trevisano non resti calunniato!

Ma non tutto è mediocre in questa povera sala; vi ha una mezza parete innanzi alla quale è forza fermarsi colla stessa commozione quale suole provarsi innanzi a ogni opera di arte veramente vissuta e sentita dall’artista.

Sono i disegni di Baccarini, un giovine faentino morto or sono due anni, a soli 24 anni. Osservandoli, le lagrime vi vengono agli occhi e la parola vi muore in gola; questo fiore d’arte, sì presto reciso vi guarda disperatamente nei vari autoritratti dagli occhi ora profondi di tragico mistero, ora rilucenti di febbre bruciante, or mesti e fissi a un pensiero fuggente; ve ne ha uno nel quale il giovinetto disegnatore si è ritratto col violino in atto di sonare; e vi pare di sentirne i tremuli accordi, le note appassionate e laceranti, i trilli che fanno rabbrividire, la cavata lunga angosciosa; e il vostro occhio corre da un disegno all’altro come per leggerne la musica che vi canta nell’anima. Ecco i bei disegni ispirati alle fantasiose novelle di Beltramelli, ecco i notturni pieni di poesia, ecco il ritratto della madre, nel cui viso scarno e dolente scorgi le traccie del male che sì presto consunse il gracile figlio, ecco la piccola bimba graziosa e ignara, figlioletta dell’artista, e i rapidi schizzi nervosi e sapienti nei foglietti d’album e infine due medaglie e una targhetta in gesso, che vi dicono nella finissima e penetrante modellatura quale cammino avrebbe saputo percorrere nell’arte questo povero giovine. E quando avete osservato tutto questo, una idea vi viene spontanea. Non già in questa sala di confuse vanità d’arte mediocre sarebbe il posto poi disegni di Baccarini, ma là vicino ai soli e veri suoi fratelli in ispirito, tra Melozzo, Scaletti e Palmezzano, vicino a Donatello grande, a Jacopo della Quercia severo; questo forse avverrà quando i conservatori d’arte anzichè di impiegati burocratici, avranno animo d’artista.

Ma un altro bel sogno vagava nella mia mente uscendo da queste fredde sale. Pensavo di vedere l’antica chiesa della Commenda dei Cavalieri Gerosolimitani rimessa in onore, e su un altare, semplice e puro