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187 IL BUON CUORE


timo canto del Paradiso di Dante, parafrasi dell’Ave Maria, paragonabile a quella del Pater noster con cui s’apre il canto undecimo del Purgatorio. La caratteristica particolare e nuova di questi tre pezzi consiste della polifonia pura.

Un giorno al suo pianoforte, nel salotto di S. Agata, il maestro ne mostrava, e spiegava al Bellaigue stesso le corrispondenze armoniche. «Egli, il gran melodista ottuagenario, che pei più belli dei suoi canti si era contentato d’una voce unica, ricordo, sorrideva e pareva felice, forse con un po’ di malizia, in fondo, per aver saputo trovare, sorprendere rapporti così sottili, così ingegnosi tra parecchie voci.»

Un problema intimo s’affaccia a questo punto. L’uomo che ha scritto tante pagine ispirate, aveva la fede? Verdi, si chiede Bellaigue, era credente? Egli ne ha espresso il dubbio ad un vivente illustre che uni la sua vita nobilmente a quella di Giuseppe Verdi, e che potette, a lungo, nell’intimità, penetrarne l’anima: Arrigo Boito.... Una lettera diretta da Boito a Camillo Bellaigue porta la data della vigilia di Natale, e dice:

«Ecco, il giorno ch’egli prediligeva tra i giorni dell’anno. La vigilia di Natale gli ricordava le sante magie della fanciullezza, gl’incanti della fede che non è veramente celeste se non quando s’innalza sino alla credulità del prodigio. Questa credulità, ahimè, egli l’aveva perduta come noi tutti, di buona ora. Ma ne conservò più di noi, un ardente rimpianto durante tutta la vita. Egli ha dato l’esempio della fede cristiana con la bellezza commovente delle sue opere religiose, con la osservanza dei riti (ricordi tu la bella testa china nella cappella di Sant’Agata?) col suo illustre omaggio al Manzoni, con le disposizioni pei suoi funerali trovate nel suo testamento: «Un prete, un cero, una croce.» Egli sapeva che la fede è il sostegno dei cuori. Ai lavoratori dei campi, agli infelici, agli afflitti che lo circondavano, si offriva come esempio, senza ostentazione, umilmente, severamente per essere utile alla loro coscienza. Ed ora bisogna arrestar qui questa inchiesta. L’andar più oltre mi condurrebbe più lontano, attraverso i labirinti d’una ricerca psicologica, dove il suo grande essere non avrebbe nulla da perdere, ma dove io stesso temerei di smarrirmi. Nel senso ideale, morale, sociale, Verdi era un grande cristiano....»

Un’altra, una donna di gran cuore che fu tra le più fedeli e le più nobili amiche del maestro, scriveva anche al Bellaigue così:

«La nostra intimità durò sino alla morte. Io ebbi la triste felicità di vegliare al suo capezzale durante i cinque giorni della sua malattia.

«Aveva interamente perduta la conoscenza. Un solo istante mi parve che comprendesse il suo stato. Quando Monsignor Catena, uno dei nostri più degni prelati, lo stesso che aveva chiuso gli occhi a Manzoni, gli offrì la mano, il gran morente gliela strinse, lo guardò sorridendo, quindi chiuse i begli occhi per non riaprirli più quaggiù. Monsignor Catena credette che quel sorriso intelligente e vivido sarebbe bastato per salvare l’anima grande.»

Un altro testimonio della morte silenziosa ricorda
qui ancora Camillo Bellaigue. Nel suo elogio funebre di Verdi, ecco come si esprimeva Giuseppe Giacosa: Le cose circostanti non potevano più nulla sui sensi del moribondo, privo di ogni comunicazione col mondo ch’è il nostro. Ed io pensavo allora che, sotto quella vasta fronte, nel silenzio delle percezioni esterne, il colpo di folgore aveva dovuto risvegliare, richiamare in folla, dal fondo degli abissi della memoria e scatenare, lasciando loro il campo libero, le innumerevoli immagini, accumulate durante una vita di ottant’anni.

Tutte queste immagini, conclude il conferenziere illustre, avevano sicuramente, un volto, una voce. La maggior parte erano umane, figure dí passione, d’amore, di dolore. Ma una, forse, santa e divina, avrà ripetuto il grido da luí già esaltato: «In te, Domine, speravi!» E l’ultimo sospiro di quella grande anima vi avrà risposto.

Domenico Russo.

LA FRIVOLEZZA



ANDREA CHÉNIER



Madre al vano Capriccio e al lusinghiero
Prestigio, a lei sempre s’aggira intorno.
L’alata Fantasia. Ninfa di corpo
Flessuoso, e di luce e d’aura avvolta,
Agile è più dell’onda, e più del lampo
Rapida, e inquieta come terso specchio,
Che al sol baleni. Ad ogni breve istante
Ella si muta, e porporina or sembra
Ora d’argento; ora s’infiamma al vago
Della rosa colore ed or scintilla
Di tinte vivacissime azzurrine.
Con volo incerto ed inegual discende
A precipizio, chè un buon duce mai,
Mai non ebbe la Diva. I trasparenti
Sogni, labil drappello ingannatore,
Le accarezzar co’ vanni sfavillanti
Le membra, e ognora accanto a lei si stanno
In faccenda i Sorrisi. Impasta l’uno
Dalle bocche balsamiche i profumi,
L’altro il giovin splendor dei labbri ardenti,
E il terzo, ch’è solingo e senza cure.
Soffia alla punta di sottil cannello
Onde in aereo globulo si svolga
Una minuta stilla d’acqua. In questa
Corte, che la Follia sempre tien viva,
Va e viene ella, regina, e canta e tace
E guarda e ascolta, e obblia, tutta rapita
In veder mille volte e in mille parti.
Dipinto il suo sembiante entro a’ cristalli

Di cui rifulge e brilla il suo palagio.

Pietro Caliari.