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310 il buon cuore
profonde come alte le cime de’ suoi puri onori. Il rimorso, il pianto, l’amaro pianto, sorgono dagli ultimi recessi della natura, e nel fare la loro via per giungere alla gola e agli occhi, mettono tutto in ischianto. Ella guardò il suo bambino e lo pianse!

— No no, — gridava ella traboccandole il cuore quando scendeva da cavallo tra i campi ad accarezzare i bambini — non vogliate ammirarmi, nè invidiare il mio stato — compiangetemi piuttosto e compatitemi perchè non sono che una infelice, degna d’essere abbandonata da tutti, in guerra con Dio, con me stessa, con gli uomini.

Questi sfoghi confidò ella al suo confessore che li segnò al cap. 3° delle sue memorie.

In questo stato orribile di tempesta, degno del suo cuore fatto per Dio e della sua inquietudine per essere lontana da lui, arrivò ai 25 anni. Non le mancava nulla di quanto la natura e il mondo sanno dare: piena di forze e di vita, avvenente, con un cuore fatto di slanci e di lacrime, amata, adagiata nella ricchezza, inchinata, ed ora con un bambino di otto anni che riempie le sale del castello del suo nome di madre.

Ma no, o mio Dio, che manca tutto quando mancate voi, poichè è tale l’ardore dell’anima nostra, che in un istante si divora tutte le gioie della terra e poi grida, grida più forte: l’infinito, l’infinito! E se ci si sente legati sulle sponde del finito, il tormento si fa grande quanto è grande la brama di ciò che non si possiede.

Per questo, nel peccato si parla, si canta, si danza, si ama, si cerca, si trova, si dissimula, si sorride, ma se si è veramente grandi, ogni nota, ogni stretta, ogni sguardo e sorriso finiscono con questo strascico amaro: sei infelice!....

Ella lo sentiva. E il Signore delle misericordie, il Padre nostro della pietà ne fu commosso. Di nascosto ella gli mandava certi sospiri che portavano tutta l’anima oppressa e invocante aiuto, e, mentre la sua debolezza diceva al peccato: sì, sì — il suo bisogno di Dio vi piangeva sopra: ha no, no, non è così che io posso vivere. — Cuore fortunatamente inquieto per nove anni!

Un mattino Arsenio uscì col cane. L’aurora metteva veli rosati sugli ulivi; per tutta la campagna brillavano gemme di rugiada. Poi il sole si fece più alto, la collina fumò la nebbia leggera saliente dai prati; si accese di vita con un canto infinito di uccelli.

Fu giorno.

Ah come devi ricordare questo giorno nel tuo cielo, o Santa!

Io non posso ricordarlo tutto in questa breve storia. Esso è uno di quei giorni che mettono l’entusiasmo nell’anima di uno scrittore della vita di un santo: il giorno della decisione, il giorno vero dell’anima e di Dio, della Chiesa e dtlla società. Esso formerebbe il più toccante capitolo di un volume che si vorrebbe consacrare al grande cuore che ne è l’argomento.

Qui io dirò solamente che quando ella, tutta in palpito abboccata dal cane di Arsenio allo strascico della veste, andò fino a urtare contro il corpo morto di lui, assassinato nel bosco, mandò un grido; quel grido che
era stato voce soffocata fino a quell’ora, il grido della liberazione, fatto di cuore che si spezzava, di lagrime che traeva la natura e la grazia, di infinito dolore per lui che l’aveva lasciata così, per lei che era rimasta così, ma più ancora, più ancora, per Voi, mio Dio, che vi facevate trovare così.

Il carbone tra le macerie si accese ancor più. Ella vide tutto: tutto il passato, tutto il presente, tutto ciò che doveva essere il suo futuro.

«Svenne» ci lasciò scritto il suo confessore. Ella moriva allora alla vita antica. E da questo istante non avrà più la vita che per rifarsi ed arrivare a santità.

Di tre sorta è l’inquietudine del cuore che anela a Dio: una è l’ansia dell’innocente che vive puro, che riproduce l’angelo nella sua terra e piange perchè nei suoi soli Dio gli si cela; egli invoca il lume di gloria e mormora il «cupio dissolvi et esse cum Christo» Questa sorta non è per il nostro caso. La seconda è il tormento è, il vuoto è, l’insazietà, l’infelicità del peccatore; questa l’abbiam veduta. La terza finalmente è quella del penitente. Quando un’anima grande prende la via della santità dopo quella del peccato, specialmente dopo i peccati del cuore, avendo fatto di Dio l’unico oggetto del suo amore, quindi di tutta se stessa poichè essa non è che un amore, non si acquieta più fino a che tutto il suo essere rinnovato in se, ne’ suoi rapporti con la società, non si trovi degno di sospirare a Lui come una vergine sposa e di entrare finalmente nelle nozze con Lui tra gli angeli ai quali è diventata sorella. E’ una inquietudine che produce un lavoro commovente di penitenza, di carità, di abbandono completo nel Signore.

Ed è questo il lavoro incominciato quel dì dalla nostra Santa presso il cadavere insanguinato di Arsenio. Si aggirò in principio come pazza pel dolore, cercando Dio a voce alta, a gridi strozzati dal pianto, per la selva. Pareva corresse in mezzo ai mille pensieri rei, ai mille movimenti indegni del cuore divenuti allora come spettri. E li voleva finire, finire tutti con un atto supremo di pentimento, con qualche cosa che essa stessa non sapeva e pur cercava. Dio la calmò un istante. Si compose con le lagrime impietrate negli occhi. Decise in un baleno di lasciare il castello, la villa, di andare per quella via di penitenza che certamente Iddio le avrebbe aperta dinnanzi.

Pochi giorni dopo fu vista con a mano il figlio che la guardava piangendo perchè lei piangeva, e camminando in fretta, traversare i campi per quella via che menava a Laviano. L’affetto tornava naturalmente alle sue sorgenti e il cuore risentiva il palpito della sua vena prima. Ella passò fra le siepi che raccolsero i suoi canti di fanciulla; rifece la strada che aveva fatto alle feste; rivide la chiesa, l’orto, dove con la madre si era seduta più volte, la casa!

Mio Dio come non si inginocchiarono davanti a questa santa, quelli che la videro allora e che se ne sentirono chiamati per pietà? poichè là era già la vostra santa o Dio, e nessuno mai dirà cos’era il suo volto in quel ritorno, nessuno ritrarrà quel suo sollevare la