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174 IL BUON CUORE


A undici anni non solamente sapeva tutto quello che i maestri avevano potuto insegnarli, ma portava già nell’anima i germi di un sogno suo, un’aspirazione indefinibile a qualche cosa di cui non sapeva rendersi ben ragione, ma che intuiva confusamente, e verso la quale si sentiva attratto con tutte le sue giovani forze.

I maestri erano spaventati della indocilità del loro allievo, che sembrava non curarsi affatto delle tradizioni classiche, e andava ricercando sul suo strumento effetti curiosissimi ai quali nessuno aveva mai pensato.

Le stesse imperfezioni tecniche con le quali il bimbo prodigioso eseguiva quella sua stravagante musica, sembrava dar ragione ai rimbrotti dei maestri; ma in realtà Paganini aveva già scoperto la sua via e ne andava tentando il sentiero, che doveva condurlo rapidamente alla gloria.

Egli si compiaceva di inventare le più ardue difficoltà e di risolverle, eseguendo un passaggio in mille modi differenti, studiandolo per dieci, per dodici ore di seguito, fino a cadere esaurito.

Naturalmente gli ammonimenti paterni non mancavano; e il ragazzo, insofferente di freni, prese ben presto in uggia la vita di famiglia. Così nel 1799, a quindici anni, conoscendo a perfezione tutte le opere dei grandi maestri: Corelli, Tartini, Pugnani, Vivaldi, Viotti, scappò di casa, e, sola ricchezza il suo violino, se ne andò per le vie del mondo in cerca di fortuna.

I successi non gli mancarono; ma libero dalla rigorosa sorveglianza paterna, la vita del giovine virtuoso non fu certo esemplare, che egli si lanciò abbandonandosi specialmente al demone del gioco.

Era a Livorno, e una brutta sera giocò tutto quel che possedeva. Non gli restava che il violino; e giocò e perdette anche quello. Come fare per il suo concerto imminente? Un ricco negoziante francese, certo Livron, mosso a compassione dalle ansie del giovine scapestrato, acconsentì a prestargli un magnifico Guarniero. Il concerto ebbe esito trionfale; e quando Paganini volle restituire lo strumento al suo proprietario, questi gli rispose commosso: «Mi guarderei bene dal permettere che altri toccasse quelle corde che sono state toccate dalle vostre dita. Il mio violino è vostro».

E fu questo il violino magico sul quale Paganini suonò per tutta la vita, e che legato dal grande artista alla sua città natale, è ora sotto una campana di vetro al Museo municipale di Genova, conservato come cosa sacra.

Dopo questi successi iniziali incomincia la prima delle misteriose sparizioni di Paganini, intorno alle quali si affaticarono invano tutti i suoi biografi. Sembra che egli avesse vissuto per quattro anni in un castello, ospite di una nobile dama; certo a questo periodo risale la simpatia ch’egli prese per la chitarra, nella quale si perfezionò rapidamente. Più tardi, quando egli voleva riposarsi delle fatiche del violino tornava con grande amore al popolare strumento; e la fama corse di alcune memorabili serate musicali -precluse inesorabilmente a tutti — in cui, accompagnato dal violinista tedesco Sina, Paganini passò lunghissime ore a trarre dalla sua chitarra i più straordinari effetti.

Nel 1805 è alla corte di Lucca, dove resta per tre anni; ed è là che una sera, dopo aver tolto le due corde di mezzo al violino, improvvisa col cantino e col sol la Scena amorosa, una specie di dialogo musicale in cui la quarta corda rappreseti ava l’uomo (Adone) il mi la donna (Venere).

Questa è l’origine confermata dallo stesso Paganini, della consuetudine che egli prese di suonare poi su una corda sola, e specialmente sulla quarta, alla quale, giovandosi degli armonici dava l’estensione di tre ottave.

Dal 1808 al 1813 una nuova lacuna appare nella vita di Paganini; ed a questa mancanza di notizie sicure particolareggiate si deve principalmente il dilagare delle mille assurdità, a smentire le quali egli dovè lottare tutta la vita.

Si disse, tra le altre cose, a proposito della suaccennata maestria del violinista a suonare in una sola corda che, avendo assassinato una sua innamorata, fosse rimasto quattro anni in prigione, dove il carceriere per tema s’impiccasse, gli aveva tolto tutte le corde al violino, eccetto una: e su quella egli si avvezzò a compiere miracoli di abilità.

Nel 1813 ritroviamo Paganini a Milano, dove su un’aria di ballo che si eseguiva allora: «Il noce di Benevento» compose le famose variazioni «Le Streghe», uno dei suoi più celebri cavalli di battaglia. Negli anni successivi viaggò tutta l’Italia, rinnovando continuamente il suo programma, oggetto dell’ammirazione dell’entusiasmo generali.

Intanto l’eco di queste sue incessanti e vittoriose peregrinazioni varca i confini dell’Italia e si spande in Austria, in Germania, in Francia, in Inghilterra; l’Europa è ansiosa di conoscere il «Mago del Mezzogiorno» il «re del violino»: e il 29 marzo 1828 Paganini esordisce a Vienna.

L’accoglienza che il pubblico gli fece fu straordinaria: l’entusiasmo divampato fin dai primi colpi d’arco raggiunse man mano ir delirio. Quando egli eseguì le sue Streghe, i brividi corsero nella sala; molte signore svennero: un allucinato affermò di aver visto a lato del violinista. il diavolo in persona che gli guidava l’archetto, e faceva delle smorfie grottesche: e il diavolo rassomigliava stranamente a Paganini!

A Vienna non si parlò più che dell’artista italiano: la moda s’impossessò del suo nome: ogni cosa che volesse divenir popolare si collegò ad esso.

In trattoria tutto quel che c’era di meglio e di più costoso era «alla Paganini». Vi furono costolette alla Paganini, e panetti alla Paganini, in forma di violino. Le signore portano abiti, nastri, piume, guanti, bottoni alla Paganini; si fumarono sigari alla Paganini; si crearono tabacchiere d’oro alla Paganini....

Alcuni ammiratori scrissero per lui poemi, sonetti, acrostici; l’imperatore lo nominò «Virtuoso di Camera», e la città di Vienna gli fili una medaglia d’oro appositamente coniata.

E pure i trionfi di Vienna, che sembravano rappresentare il non plus ultra delle manifestazioni entusiastiche, impallidirono di fronte a quello che accadde a Parigi.