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276 | IL BUON CUORE |
Tutte le vecchie basi della società sembravano scosse senza rimedio; e ciò che ne aveva fatto fino allora la forza non trovava più credito presso alcuno. L’impero che aveva esteso i suoi confini a tutto il mondo ora non comprendeva che l’Italia. Attorno, da ogni parte, gli si stringevano, fra lotte sanguinose che portavano per ogni dove la desolazione e lo sterminio, le giovani e vigorose potenze barbariche. I Brettoni nella loro isola lontana, i Franchi e i Burgundi nelle Gallie, i Visigoti nella Spagna avevano scosso il giogo ed imponevano il loro dominio, difendendolo contro popoli rivali. Genserico con i suoi Vandali, passato di Spagna in Africa, s’era proprio allora impadronito di Cartagine, obbligando l’imperatore Valentiniano ad una pace vergognosa; e neppure questo bastava. Gli Unni, questi barbari dell’Asia, così dissimili dagli Europei da sembrare a questi più bestie feroci che uomini, benchè ancora lontani, non avrebbero tardato ad invadere l’Occidente, gettando il terrore su vincitori e vinti, e a portare le loro armi vittoriose fin sotto le mura di Roma.
Tutto pareva si disgregasse. L’ordine costituito si dissolveva a vista d’occhio; le leggi, non avendo più sanzione, non avevano più efficacia alcuna; e il dubbio, penetrando nelle coscienze, scuoteva fortemente le credenze religiose. Nuove dottrine pullulavano ad ogni canto, seducenti per la stessa loro novità, mentre le antiche eresie rialzavano il capo, sperando, forse, che la Chiesa se ne andasse con l’Impero. Mai, come in quel quinto secolo, sorsero e con maggior violenza combatterono, tante sette religiose: gli ariani da una parte e i manichei dall’altra, i pelagiani e i priscillianìsti e i nestoriani; tutti insieme si apprestavano a lottare contro Roma.
Ma la grande figura di Leone Magno sorse a fugare questo nembo di nemici; a mantenere unità alla Chiesa, a salvare la patria che stava per soccombere sotto la violenza dei barbari. Egli seppe, all’occorrenza, mostrarsi dolce e rigido; seppe imporsi con la bontà del suo animo, e con la fermezza della sua volontà; e riuscì sempre a padroneggiare gli avvenimenti, e ad aver ragione dei suoi avversari. E in questo momento in cui tanto fervore di spirito nazionale agita gli animi del popolo italiano, viene bene a proposito ricordare la grande figura di questo Papa, che amò, con eguale ed appassionato affetto, la Chiesa, di cui era capo, e l’Italia, di cui era figlio.
Si è incerti sul suo luogo di nascita, che alcuni vollero fosse la Toscana; come si è incerti sull’anno in cui fu elevato al diaconato. Ma pare che i primi onori egli li ricevette sotto il pontificato di Celestino, avendo già acquistato, in quel tempo, grandissimà autorità. Egli, infatti, divenuto arcidiacono della città di Roma, seppe così bene dimostrare tutte le mirabili qualità della sua mente, che Papa Sisto III ricorse più di una volta al di lui consiglio. Non solo, ma si aveva tantaIl pontefice si scagliò con vibrante eloquenza contro questa setta dannosa, combattuta già da S. Agostino, condannata da Innocenzo I nel 406. Scopertone un buon numero, San Leone li convertì, bruciò i loro libri; convocò, infine, nel 443 un’assemblea di vescovi e preti per discutere l’eresia. Fu questa la prima lotta che egli intraprese contro i numerosi nemici che sorgevano da ogni parte; e da quel giorno non ebbe pace, se non quando con la persuasione e con l’eloquenza, riuscì ad aver ragione di tutti. Non solo, ma per meglio combattere l’errore, egli indisse quei famosi concilii, che vanno annoverati tra i più importanti per la gravità delle questioni che vi furono trattate e che ebbero una soluzione netta e definitiva. E se non fu possibile al Papa assistere di persona a queste grandi assemblee, è fuor di dubbio che la loro preparazione, le loro discussioni, furono totalmente opera sua; e che egli, quantunque lontano, vi seppe esercitare una tale preponderanza, che la storia di questi concilii è strettamente connessa a quella del suo pontificato e di tutta la sua vita. La lealtà del suo animo e la dirittura del suo carattere gli impedirono di ricorrere all’astuzia per sconfiggere i capi delle nuove sette — alle volte personaggi potenti, che godevano la protezione degli imperatori — ed amò, invece, combattere a viso aperto, severo nella lotta, ma dolce dopo la vittoria, e pronto al perdono, desideroso, anzi, di concederlo.
La storia dei concilii di Costantinopoli e di Calcedonia, e quella triste e sanguinosa del falso concilio di Efeso è cosa troppo nota perchè io abbia a ripeterla. Ricorderò solo che il Concilio di Costantinopoli, il quale era stato indetto per pronunziarsi in merito ad una divergenza sorta tra Fiorenzo vescovo di Sardica metropolita della Lidia e due vescovi della sua provincia, assunse all’improvviso una straordinaria importanza, quando Eusebio, vescovo di Dorilea, stimò doveroso portarvi le sue accuse contro Eutiche. Costui, abate di un monastero presso Costantinopoli, con la scusa di perseguitare il nestorianismo, incominciò a bandire una nuova eresia che prese nome di monofisismo. Questo monaco — divenuto lo strumento di persone abili e potenti che si servivano di lui per i propri interessi — non volle riconoscere i suoi errori, nem-