Pagina:Il buon cuore - Anno XIII, n. 09 - 28 febbraio 1914.pdf/3

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to, e senza che il legame apparisca abbastanza chiaro, ai Santi che dopo aver peccato risalirono il cammino della virtù toccandovi la perfezione. La wrsa all’abbisso, è indicata con una straordinaria efficacia: "cadesU In grembo a un’immnesa pietà. Poi come pei tanti solitari v’è una similitudine, anch’essa forse ha intenzione d’esser un argomento. Infatti egli nota che questi privilegiati non solo nel risorgere risorgono puri, ma raggiungono d’un tratto la sommità della virtù. Chi aveva scritto la conversione dell’Innominato aveva’ fatto seracare con mano questa rapidità di rivoluzione. Ma il mondo, come sorride’ delle virtù ’contemplative prende pretesto a scandalizzarsi di queste altre virtù o come troppo improvvisate, o troppo presto premiate. Don Abbondio daVanti a quella conversione aveva rappresentato in modo golfo ciò che il Mondo ripete in tono sapiente. Allora il poeta ne cerca an’cora nella natura il segreto, e pensa ’all’umore sniarrito,tra il fango sotterra, che se colto da una vena violenta, è trascinatò a mondarsi ira!’angustie -dei sassi finché erompe dall’alto dello scoglio. La Mi magine, come sempre quella del Manzoni è utilizzata acutamente, ma nelle parole in cui si esprime soffre di troppa minuzia e Studiata precisione. Bellissima Invece è la conclusione di questo passo. Non si metta in tacere per scrupolo di riverenza questo loro tristo passato; porta anch’esso l’impronta di Dio che ha p,A- cionato: che

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no’ rsi, ha _cola.ori’. Atte cl O" aeri rat Un timido ossequio’ non veti. Le piaghe che il fallo v’impresse: Un segno divino sovr’esse La man, che le chiuse, lasciò. Questa strofa io l’avevo pubblicata con una variante che mutava i due primi versi nei seguenti: In voi dell’antiche ferite San belle le margini istesse; ma la prima versione Oltrechè essere più comprensiva aveva per sè il suffragio del Rosmini, il quale nella succitata lettera scriveva al Manzoni: a Vela mente non rimangono più margini di quelle ferite, ma solo memorie». 11 rapido trapasso successivo sottintende che dopo la caduta dell’uomo non c’è premio che non sia un perdono. Difatti -egli si rivolge subito, quasi per contrasto, all’unica creatura oggetto non di perdono, ma di solo amore, a Maria. E si ha la strofa pubblicata dal 13onghi: Tu sola a Lui testi ritorno Ornata del primo suo dono, Te sola più su che il perdono L’Amor che può tutto locò. Essa sarebbe senza dubbio stata ritoccata ancora dal Manzoni, perchè vi si leggono vicine le dite

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parole: ritorno e ornata, che fanno brutta assonanza, e vi è in ’fondo il verbo troppo materiale locò, al quale sarebbe stato naturale sostituire levò. Dopo questi ritocchi la strofa sarebbe riuscita stupenda. Nelle due ’ultime il poeta insiste sopra l’immacolata concezione della Vergine, descrivendo plasticamente la sua vittoria sul serpente, vittoria segnata fin dal giorno in cui esso ebbe riportato il nefasto trionfo sopra il genero umano. Ma’ la prima delle due quartine è già indicata dal Manzoni stesso come da rifarsi tutta, e la seconda stess-a che è più corretta non raggiunge l’altezza poetica delle quartine precedenti. Qui termina la pubblicazione dell’inno qual’è fatta dal De Marchi-. Ed egli osserva: a E’ probabile che nel seguito dell’inno altre forme di santità avrebbe ricordato dopo quelle della contemplazione e del pentimento». Ora non solo ciò eri probabile, ma certo. Se il De Marchi avesse avuto modo di consultare- il manoscritto di Biera avrebbe visto clic, quantunque frammentaria, v’era una larga traccia del seguito. Sono costretto tuttavia a indicar ciò salo per una memoria lontana. Quando, nel istol, seppi dell’inno ritrovato da Giovanni Sforza, essendo io presso cari amici ia Lunigiana non seppi resistere più a lungo: presi, il treno e andai a Massa-Carrara nella vilietta doVe lo Sforza, direttore allora del locale archivio di Stato, mentre ora lo è in quello di Torino, compieva i suoi diligentissimi lavori storici.’ Non le conoscevo ancora di persona, ma la sua cortesia e la comune ri verenza al grande lombardo, che lo aveva tenuto bambino sulle ginocchia insieme alla propria nipotina per sentirli bisticciarsi in toscano, mi tolsero presto di, imbarazzo. Così. non erano corsi dieci minuti che io gli avevo chiesto di veder l’inno, td agii m’aveva posto sott’occhi quella primizia ignorata e desiderata. Che gioia d’esser chiamato con privilegio, a osservare un tesoro ancora nascosto 1‘ iVia è gioia che ha bisogno d’esser partecipata, tanto è espadsiva nel suo tumulto. Non ero infatti arrivato alla fine della lettura, che già avevo chiesto allo Sforza il permesso di non goderne per me. solo. Si poteva essere più indiscreti di così? E venimmo ad una transazione:, dire pubblicamente, quando l’occasione ne venisse, che cosa l’inno contiene, sì; citarne le parole, no. Il permesso di far conoscere i pochi versi che pubblicai l’ebbi molto più tardi. E difatti, come il -De-Marchi cita, detti allora un cenno sui giornali di ciò che il manoscritto conteneva. Riandando ora i ricordi e le impressioni di quel giorno ho in mente appunto che dopo i versi che si conosceranno dal libretto del De-[Marchi, incominciava la seconda parte dell’inno, ’purtroppo tutta ad abbozzi e frammenti. La traccia, se lessi bene allora, era la seguente: a Santi contemplativi, e Santi pegcatori, tutti dacchè Pietro li ha innalzati agli altari, non temono più la volubilità umana, che quando al