Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/94

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Con arte tal, che le manate corte
S’inventrin dentro, e fuor rimangan sole
Le più eminenti, e facciasi eguaglianza,
La qual, perché non si disciolga, ai capi
Cinger forte convien di vinci, o rovi,
Che vagliano a durar tenacemente
Per tutto ’l tempo, che in maceratojo,
Quai malfattori, rimarran sepolti.
Se vorrai, fanne pur novella pira,
Ma al piè sia cinta da le tronche vette,
O dal pattume derelitto, in modo
Che, se pioggia dal ciel cade, non bagni,
E non inzuppi d’acqua, o pur di loto
Il pedal, dove il tiglio è più robusto.
Io non so dir qual l’allegrezza sia
Allor de gli operaj, qual sia la festa,
In veder sì vicina al fin ridotta
La tanto lunga travagliosa tela,
Fuor di timor, che la flagelli ’l cielo,
Che ’l vento la sconvolga, o ch’altro danno,
Di tanti che n’abbonda nostra terra,
A lei, per noi pur gastigar, succeda.
Tempo è allor di tripudio, e se al banchetto
Siede il prode cultor con gli operaj,
Se l’erbolattea torta si divide,
E se si cionca con al collo il fiasco,
Ben è ragion. Anch’io verrò, ch’è giusto
Qualche soave al faticar ristauro.
Or che più resta a dir? Ancor rimane
Da desolar de’ canavacci ’l campo.
Questo maschio virgulto ingigantito
E’ dedicato al tepido Settembre,
Quando già tiene il sol la Libra in mano.