Pagina:Il mio cuore fra i reticolati.djvu/164

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Dormì in un’altra stalla, un sonno grosso e pieno di incubi. L’alba lo destò, ponendogli cinque dita fredde sulla fronte. Si alzò, stiracchiandosi. Uscì nella campagna friulana, nuda, sterminata, pallidissima.

Un sole sporco, sbavato da filacciature di nuvole malate, si arrampicava faticosamente sul mondo. Un sole di guerra, salutato da un rombo sordo di artiglierie, forze misteriose che affermavano il loro dominio sulla natura.

La natura infreddolita, il cielo pervertito, il sole impoverito, dissero a Franco che la guerra era ormai padrona del mondo, che la serenità, la primavera, la pace, la felicità erano tramontate per sempre. I mattini di purezza cristallina, le verginità perlacee dell’alba, le delicatezze smerlettate dei canti di usignuolo su ramoscelli immobili per lo stupore, le sfumature infantili dei cieli lirici rimanti con le bianche rinascite delle anime, erano cose perdute, lontane, finite da dimenticarsi per sempre.

Ora il sole stesso si copriva di un gagliardo cimiero d’acciaio, dalla fosca visiera. Grigio e metallico erano in ogni cosa: nell’aria, nella terra, negli uomini, nei colori, nei rumori, nei sentimenti, nelle parole. Tutto doveva essere grigio e metallico, se voleva vivere. Il resto non poteva esistere, non aveva posto nel mondo.