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gno di raccogliere tutta la mia buona fede e di consultare il Pinturicchio nella Sala Quinta.

Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir di stupefazione o d’irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. Aveva, quando si trovava nel demi-monde, una sua maniera e un suo stile particolari. Per non annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi, atroci impertinenze dissimulate con l’ambiguità delle parole, sottigliezze incomprensibili, madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un gergo, di mille sapori come un’olla podrida rabelesiana, carica di spezie forti e di polpe succulente. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa, un aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d’una cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa e possente, la vera parola di carne e d’ossa, la frase piena di midolla sostanziale, la frase che vive e respira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma, comunicando all’uditor degno un piacere duplice, un godimento non pur dell’intelletto ma dei sensi, una gioia simile in parte a quella che producono certe pitture dei grandi maestri coloristi, impastate di porpora e di latte, bagnate come nella transparenza d’un’ambra liquida, impregnate d’un oro caldo e inestinguibilmente luminoso come un sangue immortale.

― Chi è il Pinturicchio? ― domandò Giulia Arici al Barbarisi.

― Il Pinturicchio? ― esclamò Andrea. ― Un superficiale riquadratore di stanze, che qualche