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deva. Rivide nell’imaginazione le mani di Lord Heathfield, quelle pallide mani, così espressive, così significative, così rivelatrici, indimenticabili. Ma il Muséllaro seguitava a discorrere. Il Muséllaro gli disse:

― Usciamo. Ti racconterò....

Giù per le scale incontrarono il conte Albonico che saliva. Era vestito a lutto per la morte di Donna Ippolita. Andrea si fermò: gli chiese qualche notizia del fatto doloroso. Egli aveva saputo la sventura, nel novembre, a Parigi, da Guido Montelatici, cugino di Donna Ippolita.

― Ma fu un tifo?

Il vedovo biondiccio e scolorito colse l’occasione per versar la sua pena. Egli portava in giro il suo dolore come un tempo aveva portato la bellezza della moglie. La balbuzie immiseriva le sue parole afflitte: e pareva che gli occhi biancastri gli si dovessero sgonfiare, come due bolle di siero, da un momento all’altro.

Giulio Muséllaro, vedendo che l’elegia del vedovo andava un po’ per le lunghe, sollecitò Andrea dicendogli:

― Bada, ci faremo aspettar troppo.

Andrea si licenziò, rimettendo a un prossimo incontro il séguito della commemorazione funebre. Ed uscì con l’amico.

Le parole dell’Albonico gli avevano rinnovato quel sentimento singolare, misto d’un tormentoso desiderio e poi d’una specie di compiacenza, che a Parigi l’aveva per alcuni giorni occupato dopo la notizia della morte. In quei giorni l’imagine di Donna Ippolita, quasi avvolta d’oblio, gli era apparsa, a traverso il tempo