Pagina:Il piacere.djvu/363

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Ella aveva la voce piena di lacrime, la bocca atteggiata di dolore.

― Non mi abbandonate! Non mi abbandonate! ― proruppe il giovine, prendendole ambo le mani, quasi inginocchiandosi, in preda a una grande esaltazione. ― Io non vi chiederò nulla; non voglio da voi che la pietà. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra: voi lo sapete. Le vostre sole mani mi potranno guarire; mi potranno ricondurre alla vita, sollevare dalla bassezza, ridonare la fede, liberare da tutte le cattive cose che m’infettano e mi empiono d’orrore. Care, care mani...

Egli si chinò a baciarle, vi tenne premuta la bocca. Socchiuse gli occhi, in atto di somma dolcezza, mentre diceva piano, con un accento indefinibile:

― Vi sento tremare.

Ella si levò, tremante, smarrita, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Il vento scoteva i vetri; giungeva un clamore come d’una moltitudine ammutinata. Quelle grida nel vento, che venivano dal Quirinale, le aumentarono l’agitazione.

― Addio. Vi prego, Andrea; non rimanete più qui, mi vedrete un’altra volta, quando vorrete. Ma ora, addio. Vi prego!

― Dove vi vedrò?

― Al concerto, domani. Addio.

Ella era tutta sconvolta, come se avesse commessa una colpa. Lo accompagnò fino alla porta della stanza. Rimasta sola, esitò, non sapendo che fare, ancor tenuta dallo sbigottimento. Si