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Salvatore che teneva in braccio un bambino grasso e rosso vestito da fraticello per voto a san Francesco d’Assisi.
— Oh Domenico, oh Domenico! — gridò Cicchedda andando incontro al padrone che depose il bimbo fra le sue braccia esili e irrequiete. E subito Domenico le accarezzò il viso con le sue manine fredde, rosse e piene di fossette.
— Ciccedda... Ciccedda.... — balbettò.
— Come sta tua madre, cuoricino mio, come?
Salvatore disse al bimbo vezzeggiando:
— Mamma è andata alla festa. Porterà i dolci a Domenico e un cavallino porterà, non è vero? E Domenico resta qui finchè mamma non torna.
— E quando torna? — domandò il bimbo, con gli occhioni un po’ inquieti.
— Domani torna, domani — disse Cicchedda deponendolo in terra.
Salvatore si curvò e lo prese con tenerezza per la manina; era una bizzarra macchietta quell’uomo grosso dagli occhi torvi chinato sul fraticello che sembrava un giocattolo, biondo, con certi occhioni verdi, grigi, azzurri, profondi e indifferenti come quelli di un grazioso ed egoista gattino. Il vestitino oscuro in forma di tonaca, dal cordone bianco e dal piccolo cappuccio, lo rendeva più grazioso e bello. Salvatore lo amava intensamente.
— E come sta? — domandò Cicchedda ad Agada che era di ritorno.