170«Pàndaro, l’arco tuo, le alate saette ove sono,
la fama tua, dov’è? Contendere niuno può teco,
in Licia uomo non v’è che vincerti al tiro si vanti.
Supplice leva a Giove le mani, e poi lancia uno strale
sopra quest’uomo ch’è tanto gagliardo, che tanti ai Troiani 175malanni inflisse, a tanti guerrieri fiaccò le ginocchia.
Se pure egli non è qualche Iddio, che punisce i Troiani
d’una mancata offerta: terribile è l’ira dei Numi».
Rispose a lui cosí di Licàone il fulgido figlio:
«Enea, sagace re dei Troiani coperti di bronzo, 180simile in tutto mi sembra quell’uomo al feroce Tidíde:
ch’io riconosco, quando lo guardo, lo scudo, i cavalli,
l’alta criniera dell’elmo. Se poi fosse un Nume, l’ignoro.
Se invece un uomo è quello ch’io dico, il figliuol di Tidèo,
ei non infuria, no, senza aiuto d’un Dio; ma vicino 185un qualche Iddio gli sta, con gli omeri avvolti di nebbia,
che un dardo aguzzo, bene diretto su lui, torse altrove:
ché un dardo io gli scagliai di già, lo colpii su la spalla
destra, e fuor fuori uscí dalla piastra convessa la punta:
ond’io credevo già d’averlo piombato in Averno, 190né tuttavia l’uccisi: fu certo un Celeste adirato.
E qui non ho cavalli né carri che ascendere io possa;
e nella casa mia ci sono ben undici carri
belli, costrutti or ora, nuovissimi, e sopra distesi
ci sono i pepli; e due cavalli vicini a ognun d’essi 195stanno, che d’orzo bianco si nutrono in copia, e di spelta.
Licàone, il vecchio eroe, piú volte me l’ebbe già detto,
quando, per venir qui, la bella mia casa lasciai:
egli mi consigliò che venissi coi carri e i cavalli,
se comandare ai Troiani dovessi negli aspri cimenti.