Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/164

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290-319 CANTO V 109

290nel naso, presso l’occhio. Passando fra i lucidi denti,
alla radice la lingua recise il durissimo bronzo,
e balzò fuori, presso l’estrema mascella, la punta.
Piombò dal cocchio giú, su lui rintronarono l’armi
lucide varïopinte: invase terrore i cavalli
295rapidi; e quivi all’eroe mancarono spirito e forze.
     Enea giú balzò allora, con l’elmo suo lungo e lo scudo,
temendo che gli Achei rapirgli potesser la salma.
E intorno a lui girava, pareva un gagliardo leone,
e innanzi a sé tendeva la lancia e lo scudo rotondo,
300pronto ad uccider chiunque venuto gli fosse vicino,
ed alti urli levava. Ma prese il Tidíde un macigno,
un masso grande, quale portar non potrebbero in due
gli uomini d’oggi; ed egli potea palleggiarlo da solo,
senza fatica. Enea con questo colpíva nel punto
305dove la coscia all’anca s’innesta: acetàbolo è detto.
Il sasso aspro schiacciò l’acetàbolo, i tendini entrambi
ruppe, via gli strappò la pelle. Piombò sui ginocchi
l’eroe, la mano sua robusta puntando alla terra,
oscura notte agli occhi d’intorno gli cadde, a coprirli.
310E avrebbe quivi Enea sovrano incontrata la morte;
ma con l’acuto sguardo lo vide sua madre Afrodite,
la Dea che concepito l’aveva ad Anchise pastore.
Stese d’intorno al figlio diletto le candide braccia,
un lembo a lui dinanzi piegò del suo fulgido peplo,
315ché a lui fosse riparo dei dardi, né alcuno potesse
dei cavalieri Dànai colpírlo, levargli la vita.
     Cosí traeva il figlio diletto lontan dalla zuffa.
Ma Stènelo i comandi non pose in oblio che diretti
gli aveva il figlio pro’ di Tidèo, Dïomede guerriero: