E lo trovò che l’armi nel talamo stava forbendo,
il corsaletto e lo scudo bellissimi, e l’arco ricurvo. 320Elena poi, l’Argiva, sedea fra le donne di casa,
ed alle ancelle dava comandi, e compieano bell’opre.
Ettore, come lo vide, lo invase di turpi rampogne:
«Oh sciagurato! Hai proprio ragione di fare l’offeso!
Alla città d’attorno, d’attorno alle mura, le genti 325cadono nella battaglia: fiammeggiano intorno a la rocca
l’urlo di guerra e la mischia: tu pure arderesti di sdegno
qualora altri vedessi non darsi pensier de la pugna!
Su, ché la rocca presto non arda pel fuoco nemico!» —
Ed Alessandro che un Nume sembrava, cosí gli rispose: 330«Ettore, sí che a ragione rampogna mi fai, non a torto.
Dunque ti risponderò; tu ascoltami e intendimi bene.
Non per collera no, né per sdegno contro i Troiani,
io me ne stavo chiuso nel talamo, in preda all’accidia.
Anzi la sposa, or ora, volgendomi blande parole, 335me, ch’io tornassi a guerra, spronava: ed il meglio è sembrato
questo anche a me: la vittoria sorride ora a questo ora a quello.
Aspettami ora un po’, ché l’arme di guerra io rivesta.
Oppur, va, ch’io ti seguo: di certo raggiungerti penso».
Disse: né a lui risposta veruna diede Ettore prode. 340E disse Elena ad Ettore queste melliflue parole:
«Cognato mio, davvero ch’io sono una cagna funesta,
lurida! Oh, se quel giorno che a luce la madre mi diede,
una maligna procella di venti m’avesse rapita,
o sovra un’alpe, o fra l’onde, fra i mille frastuoni del mare, 345che m’inghiottissero i gorghi, che tanta sciagura non fosse!
Ma poi che tanti mali volean che seguissero, i Numi,
deh!, fossi almeno stata la sposa d’un uomo piú prode,