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230-259 CANTO VII 161

230poltrisce, in odio al re di genti Agamènnone: molti
però ci sono ancora, che stare ti possono a fronte.
Su via, dunque, si dia principio alla guerra e alla zuffa».
     Ettore, agitatore dell’elmo, cosí gli rispose:
«O Telamònio Aiace, divino pastore di genti,
235non fare questa prova su me, come io fossi un fanciullo
privo di forze, o una donna che ignora le prove di guerra.
Esperto io molto sono di guerre e di zuffe omicide:
a destra e a manca so palleggiare lo scudo di guerra,
senza fatica: cosí leggera è per me la battaglia:
240precipitarmi so nel tumulto dei rapidi carri;
so, combattendo a pie’ fermo, danzare la danza di Marte.
Ora, cercare il modo non vo’ di colpire ad inganno
te cosí prode; bensí, se posso, di colpo palese».
     Detto cosí, librò, vibrò la sua lunga zagaglia
245contro l’orrendo palvese foggiato di pelli bovine.
Percosse il disco ottavo, di bronzo, sui sette di pelle:
sei falde penetrò la furia del solido bronzo,
e trattenuta fu dalla settima. Aiace, di Giove
stirpe, secondo l’asta vibrò che gittava lunga ombra,
250ed Ettore colpí sovresso lo scudo rotondo.
L’asta massiccia passò fuor fuori lo scudo lucente,
e nell’usbergo, tutto d’agèmine vario, s’infisse.
La tunica passò, presso il fianco, diritta la punta;
ed egli si chinò, schivando la livida Parca.
255Trassero fuori ancora entrambi le lunghe zagaglie;
e l’un sull’altro poi piombarono, pari a leoni
crudi, a cignali selvaggi, di cui non è poca la forza.
Il Priamíde colpí con l’asta lo scudo nel mezzo,
né frangerlo poté, ché indietro la punta si torse.

Omero - Iliade, I - 11