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XLVIII PREFAZIONE

scritti, e molti superiori alla potenza umana. Eppure, come appare il Pelide, li vediamo tutti impallidire, sparire, sentiamo che in realtà sono serviti all’artista per costruire il piedistallo su cui deve giganteggiare l’unico eroe. Ora, questa preparazione lentissima, questa gradazione, questa colossale progressione mantenuta con tanta abilità che nessuna delle sue fasi possa nuocere allo scoppio finale1, non può essere condotta che dalla mente d’un solo artista, che dòmina tutta la materia e ne dispone ogni parte ai fini della sua arte.

Ma poi, bisogna aver le pupille coperte da sette pelli più dure di quelle che rivestivano gli scudi omerici, bisogna proprio non avere la più debole facoltà di visualizzare le pitture d’un poeta, per non sentire che la medesima, medesimissima mano ha tracciati gl’innumerabili paesaggi e quadretti di genere, che, chiusi nelle semplici cornici delle comparazioni, costellano di tanta luce e tanti colori tutti i canti dell’Iliade. Bisogna avere le orecchie intronate più che dalle cento tube dantesche per non sentire che l’armonia degli esametri omerici, è sempre la medesima, dai primi canti agli ultimi. E se si sente la squisitezza di quest’armonia, bisogna avere un concetto dell’arte degno dell’immortale Pangloss, per immaginare che nell’aurea epoca del protoellenismo, a simile eccellenza, a simile magistero di stile, pervenissero gli aèdi a dozzine, a frotte, come i tonni nelle cetàre.

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Sussiste invece, ed è certo di grande importanza, il problema intorno all’età in cui furono composti i poemi.

  1. Per esempio, Diomede affronta e ferisce addirittura Marte. Ma i