Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/86

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110-139 CANTO II 31

110Giove figliuolo di Crono m’avvinse ad un tristo destino,
che mi promise, crudele, convenne col cenno del capo
ch’io la città di Troia prendessi, e tornassi alla patria;
ed ora un tristo inganno mi tese, e m’impone che ad Argo
dopo che tanta gente perdei, senza gloria ritorni.
115Turpe di certo parrà anche ai posteri, quando l’udranno,
che tale e tanta turba d’Achivi abbia invano pugnato,
abbia condotto una guerra che priva di frutto rimase,
contro piú scarsa gente: ché il fine tuttor non si vede.
Perché, se un fido patto volessimo Achivi e Troiani
120giurar di tregua, e poi contar quanti siam gli uni e gli altri,
e s’adunassero quanti guerrieri hanno in Troia dimora,
e invece tutti noi ci adunassimo in gruppi di dieci,
e ciascun gruppo eleggesse, per mescere vino, un troiano,
certo dovrebbe a molte diecine mancare il coppiere:
125tanto, io vi dico, i figli d’Acaia son piú dei Troiani
ch’abitan d’Ilio dentro la rocca. Ma in loro soccorso
uomini giunser da molte città, vibratori di lancia,
che me tengon lontano, né lascian, quantunque lo brami,
ch’Ilio espugnare io possa, la rocca di popol frequente.
130Nove anni sono già di Giove possente trascorsi,
fradicio il legno è già delle navi, marcite le funi,
le nostre spose, i figli che ancora non sanno parlare
dentro le case stanno, ci attendono; e l’opera nostra
cosí resta incompiuta, per cui siamo a Troia venuti.
135Ora, su dunque, tutti facciamo cosí come io dico:
sopra le navi fuggiamo, torniamo alla patria diletta,
ché mai Troia dall’ampie contrade espugnare potremo».
     Cosí disse; ed a tutti commosse lo spirito in seno,
a tutti della turba, che nulla sapean del consiglio.