Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/107

Da Wikisource.
104 ILIADE 618-647

     Meríone a lui rispose, valente nel gitto dell’asta:
«Enea, facil non è, per quanto sii tu valoroso,
620che tu la furia spenga di quanti ti vengono incontro
nella battaglia pugnando. Tu pure sei nato mortale:
se anch’io colpirti in pieno potessi col lucido bronzo,
per quanto sii tu forte, per quanto gagliardo, daresti
a me la gloria, all’Ade dai negri corsieri lo spirto».
     625Disse. E rampogna a lui rivolse il figliuol di Menezio:
«Perché, Meríone, cianci cosí, tu che pure sei prode?
Non le parole d’ingiuria, mio caro, faran che i Troiani
lascino il corpo: piú d’uno dovrà pria la terra coprire.
Val nei consigli la lingua, ma valgono in guerra le mani.
630Dunque, non piú si gonfin parole, ma a guerra si muova».
     Primo, ciò detto, si mosse, seguí Meríone divino.
Come il rimbombo si leva, quando uomini abbattono querce
entro le gole d’un monte: lontano il rumore s’effonde
tale su l’ampia terra sorgea dalla pugna un frastuono,
635dal bronzo, da le pelli di bove dei solidi scudi,
mentre l’un l’altro feriva, coi brandi e con l’aste affilate.
Né ravvisato qui avrebbe Sarpèdone alcuno, per quanto
lo conoscesse: ché tutto le frecce la polvere e il sangue
lo ricoprivan giú giú, dal capo alle piante. E piú sempre
640quelli d’intorno al corpo correvano, come le mosche
ronzano dentro un ovile d’intorno alle secchie ricolme,
a primavera, quando riboccano i vasi di latte:
cosí quelli correvano al corpo d’intorno. Né Giove
mai dalla mischia orrenda stornava il suo fulgido sguardo;
645ma sempre ad essi gli occhi volgeva, ed andava pensando
molto d’intorno alla morte di Pàtroclo; e incerto restava
se forse qui dovesse nel fiero cozzar della pugna