Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/242

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289-318 CANTO XXII 239

Né sbagliò il colpo, e percosse nel mezzo lo scudo al Pelíde.
290Ma rimbalzò dallo scudo lontana la lancia; e gran cruccio
Ettore colse; ché invano scagliata ebbe l’asta veloce.
Stette confuso, ché piú non aveva altra lancia; e levando
un alto grido, allora, Deífobo, candido scudo,
chiamò, chiese una lancia; ma quello non gli era vicino.
295Ettore, tutto allora comprese, e fra sé cosí disse:
«Misero me, gli Dei m’han proprio chiamato alla morte!
Ben io credea che a me vicino Dëífobo fosse;
ma quegli è fra le mura, ma Palla m’ha tratto in inganno.
Ora la triste morte non è piú lontana, è qui presso,
300scampo non v’è. Fu tempo che a Giove ed al figlio di Giove
che le saette scaglia lontano, io fui caro: eran pronti
essi, a proteggermi, un tempo: adesso m’ha còlto la Parca.
Ma non senza contrasto ma non senza gloria morremo,
ma qualche grande gesta compiendo, che ai posteri giunga».
     305E questo in cuor volgendo, sguainò l’aguzza sua spada,
che gli pendeva al fianco, che era massiccia e pesante,
e s’avventò, stretto in guardia, come aquila a sommo dei nembi,
che giú scoscende al piano, traverso le nuvole fosche,
a far preda d’un tenero agnello o d’un cuccio di lepre.
310Ettore s’avventò, pari a quella, stringendo la spada.
Ma gli fu sopra Achille, che ardeva di furia selvaggia
dentro nel cuore. Il petto dinanzi copria con lo scudo
tutto corrusco bello: di sopra ondeggiavano all’elmo
quattro cimieri; e belle scotevansi in giro le chiome
315fitte, che aveva Efesto piantate al bocciuolo dintorno.
Come di mezzo a le stelle nel cuor de la notte scintilla
d’Èsperò l’astro, il piú bello fra tutte le stelle del cielo:
tale un fulgore sprizzava dal cuspide aguzzo, che Achille