Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/276

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708-737 CANTO XXIII 273

     Cosí diceva. E Aiace figliuol di Telàmone surse,
e poi lo scaltro Ulisse, maestro sottile d’inganni.
710Cintisi entrambi i fianchi, si fecero in mezzo alla lizza,
e l’un l’altro nel cerchio stringea delle braccia gagliarde,
simili ai travi che a incastro connette un artefice insigne
in vetta ad una casa, che servano a schermo dei venti.
E crepitarono i dorsi, battuti con dure percosse
715dalle gagliarde mani, scorreva pei dorsi il sudore,
e lividure fitte parevano, brune di sangue,
sopra le spalle e sui fianchi. Né aveva mai tregua la lotta,
ché contendevan gli eroi per vincere il tripode bello.
Né pur poteva Ulisse scrollare né abbattere Aiace,
720né pur poteva Aiace prostrare la forza d’Ulisse.
Ma quando tedio omai vinceva i guerrieri d’Acaia,
il Telamonio Aiace cosí favellava ad Ulisse:
«Ulisse, o molto scaltro divino figliuol di Laerte,
sollevami ora, ed io te sollevo; e sia giudice Giove».
     725E, cosí detto, lo alzò. Né Ulisse obliò le sue frodi,
ma lo colpí sul garretto di dietro; e gli sciolse le forze,
sí che rovescio cadde. Gli cadde anche Ulisse sul petto:
stavano intanto, tutte stupite, a guardare le genti.
Ulisse poi, tentò sollevare di terra il rivale,
730e lo scrollò di tanto, né pure pote’ sollevarlo.
Tra le ginocchia allora gli pose un ginocchio: un su l’altro
caddero a terra giú, s’imbrattaron di polvere entrambi.
E già, balzati in pie’, venivano al terzo cimento,
se non sorgeva Achille, che allor li rattenne, che disse:
735«Non contendete piú oltre, non vada piú oltre l’affanno.
D’entrambi è la vittoria. Prendetevi uguale compenso,
ed ite; ch’altri Achei misurare si possano in gara».