Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/68

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290-318 CANTO XV 65

290certo, protetto l’ha, salvato ha di Priamo il figlio
che le ginocchia fiaccò di tanti guerrieri d’Acaia,
come anche adesso avverrà, mi credo: ché senza volere
di Giove, ei non s’avanza cosí furïoso alla pugna.
Ma su, come io vi dico, cosí tutti adesso facciamo:
295ordine diamo alle turbe che tornino presso le navi;
e noi, quanti abbiam vanto che siam fra gli Achivi i piú prodi,
stiamo, se mai si possa fermarlo, facendogli fronte,
contro puntandogli l’aste: per quanto bramoso di zuffe,
non oserà dei Dànai, credo io, penetrar fra le schiere».
     300Cosí diceva. E quelli l’udiron, gli diedero ascolto.
Essi d’intorno ad Aiace si strinsero, ad Idomenèo,
a Teucro, a Merïóne, a Mege, l’uguale di Marte;
e a sé tutti i piú forti chiamando, sostenner la pugna
contro Ettore ed i fieri guerrieri di Troia: piú dietro,
305tutta la turba fece ritorno alle navi d’Acaia.
Vennero al cozzo i Troiani compatti: ché innanzi, a gran passi,
Ettore andava, e dinanzi ad Ettore, Apolline Febo,
che d’una nube aveva le spalle ravvolte, e stringeva
l’ègida orrenda, abbagliante, villosa, sterminatrice.
310Efesto, il fabbro, data l’aveva al figliuolo di Crono,
ché sbigottisse i mortali: nel pugno, a guidare le genti,
or la stringeva Febo. Serrati attendevan gli Achivi,
e acuto il grido surse da entrambe le parti; e dagli archi
frecce volavano, e molte zagaglie dai pugni gagliardi:
315queste, a trafigger le membra dei giovani pronti alla pugna,
quelle nel mezzo, prima di giungere ai candidi petti,
pure di carne umana bramose, restavano in terra.
Or, sinché ferma in pugno Apòlline l’ègida tenne,