Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
dagli Orsenigo. | 23 |
V.
Un giorno, stavano sole, sole. Tornate in casa, poco prima, oppresse dal caldo, dall’afa, s’erano spogliate e lavate, mani e volto, e mutata la biancheria ed arruffate e scomposte alquanto le pettinature e, poi, rivestite un po’ sciattamente, infilzando: la Radegonda, una veste da camera di casimiro rossa, costretta negligentemente da un cordoncino dorè; l’Almerinda, un camice di mussolina, listato di verdognolo e bianco. L’Almerinda sedeva su d’un canapè, dritta, dritta, col gomito sur un tondino di marmo, con la guancia nella palma, con gli occhi fissi nel sottolume d’inceratina; la Radegonda si cullava, sdrajata lunga lunga, in una poltrona a dondolo, con le palpebre abbassate, accarezzandosi le labbra con l’indice della sinistra. Chicchieravano d’ineziucole; commentavano burlescamente alcuni discorsi, fatti dagli amici; deliberavano sull’impiego della serata e della dimane; ma, pian piano, la conversazione illanguidì, quasi le sonnecchiassero. Eppure, tutt’altro: la Ruglia-Scielzo corrugava le sopracciglia e si sentiva rivoltare lo stomaco, pensando al convegno, dato a Maurizio pel giorno seguente; e che non avrebbe la forza d’animo