coli involtini di carta, certi poveri donuzzoli, che, alcuna volta,
con istento grande e consolazione somma l’avea indotta
ad accettare, ed alcuni oggettucoli permutati con
oggetti analoghi di lei, qualche anella, un portacapelli,
una catenina. Impallidì, vedendo l’inatteso rinvio. Poi,
ostinandosi nell’ultima lusinga, cominciò, più minutamente,
a scorrere foglio per foglio, involtino per involtino;
a cacciar fuori da ogni busta la carta e scuoterla e
guardarla attraverso la luce: ad esaminare ogni gingìllo,
come un orefice, che dovesse compilarne l’inventario.
Ma sì! di quanto egli cercava, niente! della sua diletta,
niente! Solo, le lettere erano impregnate di un vago profumo
di pacciulì, per la cassetta, in cui la donna le aveva
conservate. Quando fu certo, via, chè non era più ammessibile
un’ombra di dubbio, raccolse ogni cosa con accurata
ed accorata lentezza; rimise tutto nella grande sopraccarta,
che raccattò di terra; e, con uno squallore di
morte sulle guance, rivolse l’occhio, interrogando, alla
bella Salmojraghi. E questa, con la calma del chirurgo,
conscio di straziare: - «L’amica mia...» - Poco prima aveva,
pur, detto nostra; ora, approfondando il bisturi, diceva,
solo, mia, e calcava su quel pronome possessivo. - «L’amica
mia m’ha detto, che Ella avrebbe, forse, un plico simile
a darmi; e mi ha autorizzata a riceverlo.» -