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cupi, rocciosi, aggiunge poesia, orrore, grandezza.

Il sole è già tramontato e l’ombra ha pervasa la valle; qualche nube si disegna all’orizzonte, soffice dapprima, poi densa: dietro la montagna è un lampeggiare stanco che dà barbagli, su in alto.

Si mette a piovere, legger leggero, ed io, che ho lasciata la mia giacca di velluto alla donna, per essere più libero, ora, in maniche di camicia, sono alla mercè dell’acqua, che mi è però molto cortese.

Tuttavia corro per arrivare il più presto, e dietro me, più o meno veloci, proseguono gli altri: Ottorino e il compagno ci hanno preceduti da tempo e appaiono, ad ogni tratto, richiamando la nostra attenzione con istrilli acuti e, improvvisi.

S’arriva così, sotto l’acqua, alle baite basse di Insella, dove mi vedo venir incontro la nostra portatrice che mi reca la giacca, la indosso e avanti ancora fino alle baite alte.

Don Luigi, il canonico, la guardia sono conosciuti e accolti colle migliori manifestazioni di stima e di compiacenza. Io sono guardato come un animale raro, ma, passata la prima diffidenza, tra me e montisti subentra grande cordialità, suggellata da una più grande scodella di latte, che essi mungono allora allora, e che io bevo centellinando, per poterne gustare l’aroma delicato e tiepido, unitamente al piacentissimo sapore. Il latte di Musella è un poema; la polenta, cucinata dal curato, e il salame, tolto dalla gerla


G. Nolli. In Valmalenco - 12