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gruppo della Disgrazia, fulgente nei ghiacciai e nei culmini di Pizzo Bello, e le Alpi Orobiche fino al Legnone.

Verso ovest invece la mia visuale è, relativamente, limitata dal massiccio della Bernina, pure fiammeggiato per il sole; dalle montagne Rosse; e, in modo speciale, dal ghiacciaio di Scerscen inferiore e superiore, visibile in tutta la sua estensione, rispetto al quale il piano gelato dello Scalino non è che un pupazzo bianco e rugoso, un pigmeo che non può e non deve mettersi ai paro coi giganti.

E guardo ancora e il vento par mi voglia strappare la giacca, i cui lembi svolazzano garrendo nell’aria: la croce ha un movimento ondulatorio, che si accentua a tratti, ed io, che le sto fortemente attaccato, seguo l’ondulazione breve, che dà piccole scosse, e sento ognuna di esse preceduta, accompagnata, seguita da un soffio lungo, impetuoso, che mi sibila nell’orecchie e mi rinfresca i garretti.

Ed è novissima e strana una fantasticheria che mi prende lassù, sospeso a mezzo cielo e strette a quella croce che ciondola: mi credo abbrancato all’albero maestro di una nave, intorno alla quale, per incantesimo, si sieno solidificate le onde; e, l’impressione è così profonda, ch’io attendo, da un momento all’altro, un piombar generale, fragoroso di creste; poi un arruffio candido ed uno scatenarsi ed inarcarsi di giganti nuovi, flessuosi, altissimi; tutto un mare ribelle, con vere montagne per marosi e vere valli profonde fra un cavallone e l’altro.