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La polvere e i granelli giallo aranciati, che facevano da tappeto sdrucciolevole fra larice e larice, nascondevano ogni tanto la traccia: ma essa appariva súbito qua e là, discorrendo fra gli aggruppamenti degli alberi, e mantenendosi sulla costa, senza salire o discendere.

Camminammo così un’ora buona: eravamo costretti, ogni tanto, per non cadere, ad afferrarci ai pini che piovevano le loro rame sopra di noi; quando il bosco cominciò a farsi men fitto e noi a sperare d’essere vicini alla vetta dell’Alpe; ecco, dietro l’ultime piante, mostrarsi uno scoscendimento spaventoso, una specie di fenditura enorme, tutta a massi bianco giallastri, che cadeva giù con una ripidità sensibilissima, e si perdeva, nell’alto, fra certe protuberanze della montagna, che non lasciavano presagir nulla di buono.

Quello poi che irritò maggiormente fu il vederci arrivati appena appena a mezzo monte, con la prospettiva poco simpatica di dovere, o tornare indietro, o tentare la salita che si presentava così disagevole e faticosa.

Ci consigliammo brevemente: Piero non voleva retrocedere, io ci tenevo a salire, ma avevo un po’ di timore per lui: la guida credeva bene discendere fra i sassi dell’ampia fenditura, per ritrovare la strada che assicurava essere più sotto.

La mandammo a quel paese, e, riposatici un poco, ci si arrischiò in mezzo a quella congerie di ciotoli, che l’acqua e lo sfregamento avevano resi lisci e piatti, come altrettante lavagne scolastiche.