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di voci nel contiguo appartamento. Era una consulta che si tenea fra mio padre e quel certo frate su gli espedienti per nuovamente consegnarmi con tutta segretezza al convento. La mia risoluzione fu subito presa. Io non potea dir più a lungo mia famiglia, mio padre. Lasciai nella stessa notte il tetto paterno. Postomi a bordo di una nave che salpava allora dal porto, abbandonai me medesimo al vasto Universo. Non importava a qual porto veleggiasse la nave: ogni parte di un sì bel mondo valea meglio del mio convento; non importava il dove sarei stato balzato dalla fortuna: ogni luogo mi sarebbe stato miglior casa della casa lasciatami addietro. La nave era accordata per Genova, ove approdammo dopo una navigazione di pochi giorni.

Appena entrato in quel porto attraversando i due moli che lo rinchiudono, e in prospetto ad un anfiteatro di palagi e tempii e sontuosi giardini che s’innalzavano in bell’ordine l’uno su l’altro, lì m’accorsi quanto diritto avesse cotesta città al suo titolo di Genova la Superba. Io sbarcava a quel porto, uomo affatto straniero, senza sapere che cosa dovessi fare, a qual parte volgere i passi. Non importava; io era libero dalla schiavitù del convento e dalle umiliazioni ch’io sopportava in famiglia. Quando attraversai Strada Balbi e Strada Nuova, quelle strade tutte palagi, arrestando con istupore lo sguardo sul lusso d’architettura che si estendea per ogni parte d’intorno a me; e quando su l’imbrunire del giorno mi trovai passeggiando fra una bella e giuliva calca di gente che andava a diporto lungo i viali cui fa ombra un curvilineo filare di alberi su la piazza dell’Acqua Verde, o fra i colonnati e i terrazzi de’ maestosi giardini Doria, io pensai ch’uomo non potesse altrove, fuorchè in Genova, esser beato.

Ma pochi giorni bastarono a mostrarmi qual cattiva risoluzione avessi presa. La mia povera borsa era già esausta; e provai la prima volta in mia vita i crucci deplorabili dell’indigenza. Io non avea ancora saputo che cosa fosse l’es-