Pagina:Italia. Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma.djvu/7

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Una notte di maggio in Roma, notte agitata come l’intemperia primaverile, coloro che aspettavano le decisioni di chi meglio di tutti poteva giudicare se necessaria l’attesa o necessaria l’azione, sentirono finalmente l’Italia.

Di fra la gente immersa in un brusio di pecchie, raggruppata a capannelli presso i ritrovi dell’Urbe si fecero luogo improvvisamente alcuni uomini carichi di manifesti.

Parve che la piena paurosa di un gran fiume — il fiume eterno di nostra gente — rompesse gli argini e per lo smotto si buttasse il gorgo, impetuosamente dirompendo, con grande urlo prima, poi con solenne possanza.

Io ero nell’Urbe quella notte: v’ero da più giorni e, se può importare il mio sentimento d’allora, io vivevo trepido ma fermo a questo proponimento: aspettare la decisione di coloro che sapevano, avendo in una mano la bilancia e nell’altra la spada.

Io fui tra i primi a leggere il manifesto che un uomo oscuro, seguìto e sospinto dalla folla come un travicello dalla piena, impastò sul muro.