Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/285

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Gli abitanti dell’isola di Corsica, verso il mille, aveano costituita a municipio la Terra del Comune, divisa in valli o distretti, formanti una pieve, e ogni pieve in parrocchie, aventi ciascuna un podestà annuale, assistito dai padri del Comune, i quali nominavano un caporale che facea da tribuno nel popolo; i podestà eleggevano un Consiglio di dodici cittadini, con autorità legislativa.

Contro del popolo stavano i baroni, e la lotta incessante abituò alle armi e alla fierezza. Il popolo chiese protezione al marchese Malaspina di Lunigiana, ed egli sbarcato vi restituì qualche ordine, e collocò l’isola sotto la supremazia del papa, che v’istituì sei vescovi, suffraganei al metropolita di Pisa. Pisa allora appunto avea preso signoria sulla Corsica, ma le fu tosto disputata dai Genovesi, che poi l’ebbero intera, e la governarono alla peggio. Per reprimere i baroni, che non cessavano la guerra fra loro e le prepotenze sui Comuni, armarono i popolani, dando il diritto a diciotto famiglie caporali di far soldati per resistervi, stipendiati da Genova. Ebbero così organizzata la guerra civile, e le case baronali perirono quasi tutte, i caporali sottentrarono alle costoro arroganze; ricorrendo chi al papa, chi agli Aragonesi, chi ai Genovesi, che tutti vantavano pretensioni diverse alla sovranità dell’isola, la quale continuò ad essere insanguinata dalla rabbia civile. Per togliersi a un disordine senza pari, i Côrsi si sottomisero spontanei al Banco di San Giorgio di Genova, sperando migliori condizioni che dalla Repubblica, e traendone intanto denari. Secondo i patti, ai baroni doveano conservarsi i titoli e i diritti, eccetto quello di sangue; stesse l’alto dominio