Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/446

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cose descritte, qualificandolo fin di «secchissimo, infelicissimo, miserabilissimo scrittore», paragonandolo al gabinetto ove un curioso collocò oggetti, forse apprezzati per antichità o per altro, ma che al mondo non sono che coselline; camaleonti disseccati, mosche nell’ambra, fantoccini scavati dalle tombe d’Egitto, qualche schizzetto di Baccio Bandinelli o del Parmigianino: mentre l’Orlando pargli una grande guardaroba, un’immensa tribuna, una galleria regia con cento statue de’ più valenti scultori, e vasi, cristalli, agate, lapislazzuli ed altre meraviglie1.

Del resto il farne il tipo dell’ingiustizia critica è esagerazione. Mentre il poeta languiva nel tristo carcere, tutta Europa prendeva interesse a’ suoi patimenti2; segni di stima e d’affetto gli erano

  1. Galileo sentiva dall’Ariosto al Tasso tale divario, quale al mangiar citriuoli dopo gustato saporiti poponi; a questo rimprovera tanti scambietti, tante rispondenze, le capriole intrecciate, il madrigalesco, e quelle favole tutte freddissime e senza meraviglia.
    Nella prima strofa del poema giudica fuor di posto gli ultimi due versi. E sotto i santi Segni ridusse i suoi compagni erranti, non avendo detto che fosser dispersi, e soggiunge: — Uno tra gli altri difetti è molto famigliare al Tasso, nato da una gran strettezza di vena e povertà di concetti; ed è che, mancandogli bene spesso la materia, è costretto andar rappezzando insieme concetti spezzati e senza dipendenza e connessione tra loro: onde la sua narrazione ne riesce più presto una pittura intarsiata che colorita a olio.... Sfuma e fondeggia l’Ariosto, come quegli che è abbondantissimo di parole, frasi, locuzioni e concetti; rottamente, seccamente e crudamente le sue opere il Tasso, per la povertà di tutti i requisiti al ben operare.... e va empiendo per brevità di parole le stanze di concetti, che non hanno una necessaria continuazione con le cose dette e da dirsi».
    Altrove, dimenticando il rispetto che ognun deve al criticato e a sè stesso, lo rimprovera di «scioccherie fredde, insipide pedantesche»; lo intitola pedantino; e «fagiolaccio scimunito» il suo Tancredi; e dice: — Io resto pur alle volte stordito in considerare scempiate cose che si mette a descrivere questo poeta».
    E a quei versi or si volge, or si rivolge, or fugge, or fuga, ne si può dir la sua caccia nè fuga (III, 31), — Io non saprei qual epiteto darmi a questa maniera di replicare la ritirata di Clorinda, perchè non so formare un attributo che abbracci, nel suo significato tutte quelle qualità, freddo, secco, stiracchiato, stentato, insipido, saltabellante, bischiazzante, insieme poi col nostro accidente inseparabile del pedantesco».
  2. Nel Goffredo ovvero Gerusalemme Liberata, stampato a Venezia nel 1600 v’è un discorso di Filippo Pigafetta vicentino, ove dice:
    — Non ha per avventura egli stesso (il Tasso), nè anco insino a qui determinata giammai, qual di questi due titoli sia il migliore, stranamente da miserabile infermità