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Cicerone 75

posta. — In quella sì antica provincia (parla ancor Cicerone), di tante città, tante famiglie, tante ricchezze, vi assicuro a stretta precisione di termini, non esser vaso d’argento, di Corinto o Delo, non gemme, non lavoro d’oro o d’avorio, statuette di bronzo, di marmo o d’altro, non pittura o in tavola o in tessuto, ch’egli non abbia esaminata per portarne via quel che gli garbasse. Siracusa perdette più statue allora, che non uomini nell’assedio di Marcello».

Anche su altre preziosità spingevasi la costui ingordigia; tappezzerie ricamate d’oro, ricche bardature da cavallo, vasi probabilmente di quelli che noi chiamiamo etruschi, tavole grandiose di cedro1; e poichè in Sicilia abbondavano fabbriche di tele e d’arazzi e tintorie di porpora, esso le obbligava a lavorare per suo conto. Riceve una lettera coll’impronta d’un bel suggello, e manda di presente pel possessore, e ne vuole l’anello. Antioco, figlio del re di Siria, dirigendosi a Roma per sollecitare l’amicizia del senato, recava, per donare a Giove Capitolino, un candelabro, pari per arte e per ricchezza al posto cui era destinato e alla sontuosità del donatore. Fermatosi il principe in Sicilia, Verre l’invita a cena, sfoggiando una magnificenza reale; e Antioco in ricambio invita il pretore, e ostenta le splendidezze asiatiche che seco traeva, vasellame di metallo fino, una coppa stragrande d’una gemma sola, una guastada col manubrio d’oro. E Verre a maneggiare e lodare que’ lavori, e prega il re voglia prestarglieli da mostrare agli orefici suoi. Antioco il compiace senza un sospetto, non sa tampoco negargli quell’insigne candelabro che con gelosia custodiva: ma quando si tratta di restituirli, il pretore lo rimanda d’oggi in domani, poi glieli chiede sfacciatamente in dono; e perchè il principe ricusa, Verre talmente insiste, che Antioco per istracco gli dice: — Tenetevi pure il restante, solo restituitemi il dono destinato al popolo romano». Ma Verre garbuglia non so quali pretesti, e gl’intima che esca dalla provincia avanti notte.

Veneravasi a Segesta una Diana bellissima, rapitane già dai Cartaginesi, ricuperata da Scipione. Verre ne pigliò vaghezza, la chiese, e ricusato, vessò gli abitanti e i magistrati fino a impedirne i mercati e i viveri; ond’essi pel minor male dovettero acconsentire che se la prendesse. Con tal devozione però era guardata, che nessuno

  1. «Scyphos sigillatos... phaleras pulcherrime factas... attalica peripetasmata.... pulcherrimam mensam citream...»