Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/410

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388 illustri italiani

fin nella città, Greci e Geti venivano spesso a conflitto. Fiera la gente e truce; barba e capelli lunghi e incolti; sempre a cavallo, ravviluppati in lunghe vesti di pelle, trattando archi e dardi avvelenati; gli stessi Greci s’erano inselvatichiti, a segno che Ovidio non gl’intendeva, e il suo parlar latino era beffato dagli indigeni1.

Tanto meno erano capaci di comprendere le sue poesie, e perciò di lodarlo, sicchè lamentavasi di non trovar ascoltatori. Avvezzo ai convegni dov’egli leggeva ad altri ed altri leggevano a lui le loro poesie, criticandosele a vicenda, lagnavasi di non aver più a chi recitar le sue composizioni2. Inoltre s’accorava che dalle tre biblioteche di Roma fossero state fatte levare le sue opere, e bruciati i libri dell’Arte d’amare3. Pure, dove non avea giuoco, non usava vino4, unico conforto gli era lo scriver versi, onde ne

  1.                In paucis remanent grajæ vestigia linguæ,
                        Hæc quoque jam getico barbara facta sono.
                        .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
                        Per gestum res est significanda mihi.
                        .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
                   Ullus in hoc vix est populo qui forte latine
                        Quælibet e media reddere verba queat.
                             Barbarus hic ego sum, qui non intelligor illis,
                        Et rident stolidi verba latina Getæ.

    Trist. V, 7, 10.

  2.                Nullus in hac terra, recitem si carmina, cujus
                        Intellecturis auribus utar, adest.

  3. Fa dire dal suo libro:

                   Quæque viri docto veteres cepere novique
                        Pectore lecturis inspicienda patent,
                   Quærebam fratres, exceptis scilicet illis
                        Quos suus optaret non genuisse parens.
                   Quærentem frustra custos me sedibus illis
                        Præpositus sancto jussit abire loco.

    Trist. III, 1.

                   Inspice dic titulum; non sum præceptor amoris:
                        Quas meruit pœnas jam dedit illud opus.

    Trist. I, 1.

    Da questi ultimi versi desumo fossero stati bruciati.

  4.                Sed quid solus agam? quaque infelicia perdam
                        Otia materia, surripiamque diem?
                   Nam neque me vinum, nec me tenet allea fallax,
                        Per quæ clara tacitum tempus abire solet.

    De Ponto, IV, 2.