Pagina:Jolanda - Dal mio verziere, Cappelli, 1910.djvu/100

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mi richiama con un rammarico che par rimprovero alle creazioni maggiori che nel suo volumetto sono poi le più numerose.

Anche nella compilazione del libro c’è un po’ di affastellamento — bisogna convenirne. I versi originali s’alternano senz’ordine con le traduzioni, e un leggiadrissimo monologo in versi martelliani confuso così nel pelago minaccia di naufragare. Si direbbe che il Sanfelice col suo tesoro di rime d’oro puro, riunite con una noncuranza da gran signore, voglia gettar una sfida alla gran caterva della mediocrità che dilata la moneta spicciola sul candore degli elzeviri. Pure, per una seconda edizione, mi permetterei di consigliarlo a lasciar circolare un po’ più d’aria nel suo volume, anche sacrificando qualche pagina, per esempio quelle dedicate a tutta la Bellezza, trentatrè strofe d’una filosofia che starebbe meglio in prosa. Ma ora intanto esaminiamo il libro com’è.

Il Sanfelice, poichè non è un poeta volgare, s’accosta al sonetto con una specie di reverenza e lo sceglie per gli sfoghi dell’anima e per i soggetti preferiti — proprio come si ricorrerebbe a una persona eletta e antica per confidarle i nostri affanni e i nostri sogni. «Cassiodoro», «Anacreonte», «Saffo», «Arturo e Morgana», «Ginevra», «In Excelsis» sono a parer mio fra i belli i bellissimi. La prima quartina dell’«Ora» è superba:

Ecco l’ora ch’io sento turbinare
i chiusi canti sospiranti il volo;
nella lirica febbre ardemi un duolo
titanico: è il mio cuor simile al mare.

Ma segue una cruda immagine, che sebbene efficace, è di un verismo che offende. E questo si ri-