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in certe ballate d’oltr’Alpe, di animare di biancori e di sospiri un parco boscoso per un’ora di una mite notte d’estate. Sono spettri di pensieri, di fedi, d’illusioni, di giovinezze, di speranze, di virtù... spettri sui quali ha penetrato dalle fessure del sepolcro un raggio di luna e la possente parola che tutto vince, nel canto che li piange, li chiama.

Il Panzacchi possiede inoltre una qualità essenziale ad un poeta: il senso squisito della misura. Non dice mai troppo nè troppo poco; ha la valentìa somma dei tocchi maestri che lasciano indovinare più che non rappresentino, e non sfatano il mistero eloquente delle ombre. Su i suoi bei versi aleggia sempre un non so che d’inafferrabile e di dolce, come un fluido che carezzi invisibilmente, o meglio come un’aria montanina di cui non si avverte ma si respira la purezza. È poi di una semplicità refrigerante, o culli accanto al fuoco i suoi sogni, o fantastichi d’angeli, di cavalieri e di re, con una freschezza colorita e gentile.

Anzi questo carattere, che secondo il mio modesto parere è il migliore della sua poesia, trovo che in Italia non si è rilevato nè ammirato abbastanza. Pochissimi dei nostri, quasi nessuno, lo supera nella ballata e nella leggenda. Udite, ecco per me il capolavoro in versi del Panzacchi:

I TRE CAVALIERI

Canti di galli uscian d’ogni cascina
E le siepi lucean per la rugiada,
Mentre alla dubbia luce mattutina
Caracollavan sulla bianca strada

Tre cavalieri. Non facean parole;
Come tre viandanti sconosciuti;
Quando raggiò sull’orizzonte il sole
Non gli voltar nè sguardi, nè saluti,