Pagina:Jolanda - Dal mio verziere, Cappelli, 1910.djvu/238

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pensando a quel povero tisico che scriveva, conscio della sua fine, versi così appassionati e soavi? Chi, vedendo sull’elzeviro quel titolo di «Postuma» e quell’avvertimento «Edito a cura degli amici» non ha riflettuto con un senso di sollievo che, dopo tutto, in questo mondaccio vi sono ancora degli animi nobili e disinteressati ne’ quali accanto allo sfolgoreggiante eroismo s’illumina e splende di luce propria la fiammella pallida e dolce della pietà? Oh gentile fratellanza di spiriti! Amicizia buona più forte de la morte! Povero Lorenzo Stecchetti, povera giovine vita falciata così! — E la melodia soave e triste di quei versi scendeva all’anima, e quei versi circonfusi da un’aureola di martirio, purificati, quasi, dalla morte, andavano a ruba, e alle imprecazioni, alle volgarità si applaudiva come al canone di una nuova scuola emancipata dalle ipocrisie, e le gemme poetiche si trasformavano in ghirlande per la tomba del grande e disconosciuto poeta.

Infatti una vaghezza fresca, gracile, melanconica come quella di certe adolescenze destinate a non varcare il limite che le separa dalla giovinezza — una promessa fittizia di energia per l’età matura, ricascante spesso in un languore dolce o nella disperazione, qualchevolta in un’ironia heiniana — la sensazione lucida dell’immensa vanità del tutto, più sentita che espressa, come spesso i predestinati hanno: una delicatezza acuta troppo per la vita: — nulla manca per la verosimiglianza di quell’anima artificiale che lagrima, o raggia nel verso.

Chi non ricorda il sospiro soavissimo: