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poteva ajutarlo: egli aveva tanti nemici, tante liti, doveva pagare tanti avvocati: agli amici bastava prodigare buone parole. Buone parole sì, quante Paulu ne volle: tanto che egli s’intenerì e si mostrò con Ballore umile e sfiduciato quanto con don Peu s’era mostrato borioso.

— Te l’ho già detto. Ballò. Io sono rovinato. Se tu non m’ajuti io non so che avverrà di me. È meglio finirla: se io muojo forse le sorti della mia famiglia muteranno: vedi, son io il cattivo genio della mia casa: dopo la mia nascita è cominciata la decadenza. Sono andato di male in peggio, di male in peggio...

— Ah, non parlare così, — disse Ballore. — Sei giovane, sei sano. Puoi fare, se non altro, un buon matrimonio. Mi meraviglio, anzi, che tu non ci pensi. Donna Kallina, beata, era una santa, ma credo che la sua anima buona gioirebbe se...

— Taci, — supplicò Paulu. — Che ella non ti senta. Io non riprenderò mai moglie, mai!

— Eppure è forse l’unico mezzo...

Paulu credette che Ballore insistesse forse per proporgli una delle sue sorelle, e provò un senso di freddo. Le donne gli piacevano, anche se brutte, purchè simpatiche, ma quelle sette vecchie vergini dalle sopracciglia minacciose gli davano l’idea di esseri ibridi, metà donne e metà uccelli, e gli destavano un invincibile disgusto.

— Ballore, — disse, pensando ad Annesa, — siamo uomini entrambi e tu mi compatirai. Devo dirti una cosa. Io ho una relazione segreta con una donna.