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Pagina:L'edera (romanzo).djvu/21

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l’edera 19


— Deve essere un altro ospite, — disse donna Rachele, — ho sentito un passo di cavallo.

— È forse babbai, — gridò Rosa, e scese dalla sedia e corse a vedere.

Un altro ospite parlamentava con Annesa davanti al portone. Era un uomo scarno e nero, miseramente vestito. La donna non lo conosceva e lo guardava con evidente ostilità.

— È questa la casa di don Simone Decherchi? - diceva l’ospite. — Io sono di Aritzu, mi chiamo Melchiorre Obinu e sono figlioccio di Pasquale Sole, grande amico di don Simone. Il mio padrino mi ha dato una lettera per il suo amico.

— L’osteria è aperta! — borbottò Annesa, ma andò ad avvertire don Simone che il figlioccio dei suo amico domandava ospitalità, e il vecchio nobile per tutta risposta ordinò di mettere un’altra posata a tavola.

Ma il nuovo ospite volle restare in cucina, e appena Annesa gli mise davanti un canestro con pane, formaggio, lardo, egli cominci a mangiare con avidità. Doveva essere molto povero: era vestito quasi miseramente, e i suoi grandi occhi tristi parevano gli occhi stanchi di un malato. Annesa lo guardava e sentiva cadere il suo dispetto. Dopo tutto, poichè i Decherchi si ostinavano ad aprire la loro casa a tutti, meglio dar da mangiare ai poveri che ai ricchi scrocconi come quel Ballore Spanu.

— Ecco, mangia questa trota, — disse la donna, porgendo all’ospite povero una parte della sua cena. - Ora ti darò anche da bere.