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una mano sul petto, diceva a tutti: «Sono stato tradito! Era ingannato! Compatitemi!»

Ora, a me corre l’obbligo di presentare a larghi tratti la intera fisonomia di cotesto principe, sulla cui coscienza pesano tristi e sanguinosi ricordi che gl’italiani non sapranno per tempo dimenticare.

Egli saliva al trono, per la morte di Francesco I, suo padre, in sul finire del 1830. Le popolazioni, martoriate sino a quel punto e non rette, sorsero a vita nuova, notando ne’ primi atti del giovane principe sentimenti di giustizia, di assennatezza e di regale clemenza; imperciocchè, ei bandiva ignominiosamente dal regno lo Intontì, ministro tremendo di paurose politiche atrocità; amnistiava e dava incarichi ai costituzionali del 24; correggeva Io scialacquo della passata amministrazione e concedeva la vita ad un ufficiale di cavalleria, il quale aveva tentato ritoglierla a lui. Perlustrate le province e conosciutone i bisogni, aperse nuove strade — non molte— e appagò i richiami col promettere incoraggiamento al commercio e alle industrie. Menata in moglie una principessa di Piemonte, le di lei rare virtù riflettendo sui suoi difetti, il palesarono men basso e triviale di quel che realmente si fosse. Riammogliatosi quindi con un’arciduchessa austriaca, annullò ogni dì più le speranze in lui concepite.

Nella prima giovanezza aveva avuto a maestro monsignor Olivieri, il quale poco o nulla gli apprese, ora il tempo mancandone assorbito dallo esercizio della caccia — passione smodata della famiglia Borbonica — ora il volere; unica sua cura fu lo inculcargli nell’anima le meschine teorie dell’avarizia. E per ciò fare, lo industre institutore cangiava le monete di argento della di lui pensione di principe 10 tanti spiccioli ediquesti componendo parecchi mucchi sur una tavola, solea dirgli:

«Altezza Reale, rammentatevi che cotesta gran somma è composta di tanti scudi, ognun de’ quali vale dodici carlini, cioè, i centoventi grana che qui vedete. Nello spendergli, avrete a rendervi esatto e scrupoloso conto di ogni soldo che dalle auguste mani vostre passerà nelle altrui.»

Educato all’egoismo, comprese ch’ei doveva in sè solo convertere la somma del bene co’ mezzi i più acconci a’ proprii interessi. Nè qui sia discaro il citare alcune particolarità a sostegno de’ miei giudizi, acciò le cagioni de’ fatti non tornino incredibili, nè sembrino dettate da animo malvogliente ed infido.

Nel 37, o su quel torno, una società anonima facea fabbricare con regio rescritto nel cantiere di Castellamare due piccole navi a vapore per fare i viaggi di Calabria e Sicilia. Re Ferdinando volle essere a parte della impresa, comperandone dieciotto azioni. Allorchè i piroscafi furono varati, il duca d’Avalos, alto faccendiere di corte, disse agl’interessati il principe aver mutato idea e non poter permettere a così piccoli battelli il pattovito tragitto. I miseri capitalisti chiesero 11 permesso di vendergli all’estero, il che loro venne negato; finalmente dopo molti giri e rigiri, udironsi proporre dal nobile duca di farne la cessione al suo signore, mercè le dieciotto azioni ch’egli si avea nell’affare. Fu giuocoforza piegare il capo e cedere al prezzo richiesto fornai venturose navi; le quali nella settimana di poi partivano per Pizzo con trasporto di truppe.