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Camera, assai tempestosa, lo impopolare Guizot disse dalla tribuna, il re avere incaricato il conte Molè di formare un nuovo ministero; sino a quel punto, egli rimanere a tutela dell’ordine e a far rispettate le leggi della nazione.

Lo annuncio della sua caduta riempì di esultanza il paese. La città illuminavasi a festa. Ognuno, scontrandosi, si abbracciava come per domestica gioia. Il plauso alle ottenute Riforme era senza fine. Ma, nella sera accadde una grande sventura che intorbidò la pace e cambiò onninamente i destini della Francia. I baluardi erano assiepati di gente che si ricambiava le novelle del giorno; quando ad un tratto udivasi lo scoppio di una pistola dinanzi la residenza del ministro Guizot; quindi la scarica di parecchi drappelli di fanti su tutti i punti del baluardo de’ Cappuccini. Molti i feriti, cinquantadue i morti, fra i quali, donne, bambini, uomini di eletta classe, e un ufficiale della guardia nazionale. La folla si allontanò in uno stante; ma, successo al primo spavento il furore, ritornò sull’insanguinato luogo, ne discacciò a furia i soldati; e posti i cadaveri sui carri schiarati da delle torce, gridando «Vendetta! Vendetta!» gli trascinarono dapprima sotto l’ufficio del National, e di là lungo i baluardi sulla piazza della Bastiglia. La rivoluzione procedette allora per rapidi fatti. Il sangue cittadino reclamava altro sangue, e l’ebbe. A cento a cento si rizzavano barricate per tutto, sin nelle vie le più anguste, le men minacciate. Gli alberi dei baluardi furono atterrati per chiudere il passo a’ fanti e a’ cavalli; i lampioni rotti; il romore della moschetteria assordava l’aere: battaglia continova, feroce, durante la notte.

L’indomani, le menti erano tutte sollevate; i tamburi della milizia nazionale battevano la carica. Gli abitanti di Versailles, di San Germano, di Rouen giungevano armati per la strada di ferro. Si dava ló assalto al Palazzo-Reale, ai corpi di guardia, alle caserme dei soldati; uomini, donne, fanciulli correvano al pericolo, alla morte, al trionfo con indifferenza grande. Alle ore dieci del mattino, Thiers e Odilon-Barrot, dichiarati ministri, percorrevano a cavallo la città, arringando il popolo e annunziando le Riforme accettate. Que’ dabbenuomini non si avvedevano che il regno della cabala — almen pel momento — era defunto. Si ritrassero salutati dai fischi, e da minacce d’insulto maggiore. Il vecchio re era costernato, la corte compresa di spavento. Un tal Sobrier, uomo ignoto nella vigilia, notissimo a’ popolani che allor capitanava sulle barricate della via di Rivoli, fu richiesto per parte di Luigi-Filippo a non volersi opporre alla di lui abdicazione in favore del conte di Parigi colla reggenza della duchessa d’Orléans; si assicurava con ciò un’amnistia generale, la dissoluzione della Camera, lo appello alla nazione. E quegli, che i successi rendevano arrogante, rispose;

«È troppo tardi! Viva la repubblica!»

Il combattimento ferveva sulla piazza del Palazzo-Reale tra i municipali che lo tenevano, il popolo che lo stringeva d’assedio, e un battaglione di fanti che facea fuoco dal corpo di guardia. Le carrozze di corte servivano di riparo alle turbe de’battaglieri popolani. Quivi apparve, per la via de’ Freddi-Mantelli, il deputato di Girardin, compilatore del giornale la Presse. Egli gridava «Pace! Pace!» e mostrava in un foglio — fradicio ancora d’inchiostro ed infilzato sur