Pagina:La difesa della razza, n.1, Tumminelli, Roma 1938.djvu/32

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CARATTERI DELLA ROMANITÀ

     Il prof Arturo Donaggio, direttore della Clinica neurologica nella R. Università di Bologna, uno dei dieci docenti firmatari del manifesto razzista, pronunciava nell’aprile del 1937, inaugurandosi a Napoli il XXI Congresso della Società Italiana di Psichiatria, un importante discorso dal quale stralciamo per i nostri lettori la parte conclusiva, d’ispirazione nettamente razzista.

La nazione artigiana e guerriera ben si è rivelata ed affermata ancora una volta nella impresa ormai leggendaria d’Etiopia con i suoi inimitabili caratteri psicologici. Noi, anche come psicologi, vogliamo celebrare qui codesti caratteri picologici, codesta forma mentis incomparabile. Tutto il mondo, dopo le strane quanto consuete perplessità e incomprensioni, ha dovuto ammirare nuovamente il pensiero onnipresente, lungimirante del Duce; la fulminea azione dei generali; e, insieme, oltre all’indomito coraggio, la straordinaria resistenza fisico-psichica dei soldati e dei lavoratori italiani; la rapidità di esecuzione; la possibilità di adattamento alle più impensate necessità del momento: i più gravi ostacoli hanno ceduto alla tenacia e alla plasticità di codesti soldati e artigiani, di codesti artieri di ogni arte. I libri del Maresciallo Badoglio, del Maresciallo De Bono — che fanno pensare, nella loro solenne sobrietà, alle classiche pagine degli scrittori latini — precisano codesta psicologia d’eccezione, e tutta quanta nostra. La campagna d’Etiopia, grande pagina del pensiero e della volontà del Duce, capolavoro bellico, documento ulteriore dell’eroismo italiano, potrebbe, in più, chiamarsi sotto questi aspetti psicologici anche un capolavoro «artigianale».

Ci piace qui riaffermare nel dato psicologico, a celebrazione della grande gesta, che in codesti caratteri psichici, in codesta forma mentale riconosciamo, contro ogni teoria unilaterale che vorrebbe ricondurci a propaggini o a presunte sovrapposizioni staniere, il documento ulteriore della continuità, oltre che della tipicità, dei caratteri psicologici della stirpe, palesi non solo nelle più alte manifestazioni, ma sì anche nelle linee psichiche della massa del popolo italiano.

Nel 1914, celebrando la memoria del grande Giulio Vassale, chi vi parla celebrò anche la nostrana forma mentale, dicendo fra l’altro: «questa energia e questa bellezza insieme del pensiero italiano, che non hanno mai ceduto attraverso i secoli, di fronte alle più grandi sventure; che sono come una necessità, una fatalità meravigliosa che scorre nel sangue di nostra gente: questa energia e questa bellezza del pensiero dovranno condurre l’Italia al suo più alto destino».

Anche quando il nostro paese era vilipeso, anche quando le tristi condizioni del paese obbligarono il popolo ad emigrare, e si andava favoleggiando dagli stranieri, e da pessimi scienziati, oltre che pessimi italiani, di degenerazione, esso, il popolo, portava con sè questo antico indissolubile tesoro psicologico. Sia consentito ricordare che codesti attributi psichici del popolo, chi vi parla esaltò, anche e precisamente, nella persona stessa degli emigranti, in un discorso pronunciato nel 1916 in celebrazione di Cesare Battisti e pubblicato dai volontari di guerra. Così dissi: «Questo slancio vitale del popolo italiano è stato sempre affermato appunto da coloro che vennero indicati a prova di decadenza e di degenerazione; appunto dalle masse innumerevoli di italiani che lasciarono la patria, che attraversarono gli oceani, che dilagarono per ogni dove. Ciechi coloro che, o emigranti, attraverso la vostra miseria, attraverso gli affanni vostri, non hanno visto il vostro eroismo; ciechi coloro che in terra straniera vi han coperto di ogni insulto, perchè non poterono vedere il tesoro raccolto nel vostro pensiero lucido e armonico, pronto e plastico: lavoratori della terra e del mare, pionieri, costruttori delle più grandi vie aperte agli umani, presenti ovunque è lotta contro le forze naturali, con i vostri muscoli possenti e con il vostro pensiero geniale; artieri di ogni arte; voi avete ancora una volta affermata la perenne giovinezza d’Italia».

Ieri, Natale di Roma, codesti lavoratori hanno sfilato nella via dell’Impero insieme alle truppe vittoriose della guerra di Africa: rivendicazione stupenda, che potrebbe avere anche il sentore d’uno schiaffo sul viso dei denigratori esterni ed interni del nostro popolo, se valesse la pena di fermarsi su codeste passate miserie di fronte alla grandezza dell’evento.

I caratteri della romanità hanno attraversato i secoli, intatti. Noi teniamo presenti le ricerche antropologiche, gli studi craniometrici, sui quali si sono imbastite teorie o dottrine discordanti, e anche hanno permesso assurde affermazioni di autori stranieri e di qualche italiano. Ma dobbiamo constatare che esiste, al di sopra del dato frammentario, unilaterale — ad esempio, della dolicocefalia e della brachicefalia — sui quali si pretenderebbe costruire vaste dottrine; al di sopra e al di là delle discordanze nei particolari, delle contingenze, che non possono renderci conto della globale personalità umana: esiste, diciamo, una manifestazione, che rappresenta la vera somma della personalità, e la designa, che è la sintesi, di fronte alla quale cedono i particolari craniometrici o d’altro ordine; che è il segno riconoscibile e differenziale per eccellenza: e questa è precisamente non la forma capitis, sì, come dicemmo, la manifestazione psichica, la forma mentis.

Se anche discusso, senza confronto valevole più d’ogni indagine craniometrica è ad esempio il complesso degli studi archeologici nei loro riferimenti alle manifestazioni della vita primordiale, che son di contenuto psichico: studi moderni che per opera del Rellini — dopo che il Brizio trent’anni addietro aveva pur posto una conclusione identica, limitata nel carattere suo di ipotesi — forniscono il documento della antichissima presenza, degli Appenninici, non terramaricoli; autoctoni; degli Appenninici, fondatori, costruttori delle prime città fortificate, preludenti la fondazione di Roma.

Nell’elemento sintetico della struttura psicologica, nella forma mentis si afferma la stirpe. L’Italia ha conosciuto vicende trionfali, vicende tristi; ma sempre la sua particolare forma mentale ha brillato di una luce tutta sua. Il fatto psicologico della romanità ha emerso con decisa, antoctona costruzione, che ha sopraffatto e mendelianamente espulso infiltrazioni di elementi accessori, affermando la sua propria struttura, riconoscibile e inconfondibile.

Insieme, fra l’altro, alla lucidità, all’armonia, alla rapidità psichica, al senso artistico, all’amore alla terra, l’accennata aderenza alla realtà, onde chi vi parla ebbe altra volta a dire che «italiano è colui che guarda in alto, ma dopo aver ben piantato i piedi sul solido terreno»; questa aderenza che si manifestò, fin dai primordi nell’arte, nelle leggi; questa particolarissima mentalità si segue sempre con caratteri indelebili. Perfino il santo italiano ha radice nella terra. Il più italiano dei Santi, fu chiamato S. Francesco, che si mette in fraterna comunicazione con la terra e di questa comunicazione imbeve il proprio slancio mistico.

Appare come logica emanazione della nostra terra e riallacciato alla tradizione lo sbocciare, che sembrerebbe improvviso e inopinato, di una figura gigantesca, aderentissima alla realtà, come quella di Giotto, della cui opera un fine critico d’arte, Mario Tinti, fra l’altro ha scritto: «Il cielo di Giotto non ripudia mai la terra». Non poteva fiorire se non dal nostro terreno psicologico il solare Rinascimento, le cui caratteristiche nostrane si impongono al più disattento, o mal disposto, osservatore. Dal nostro terreno psicologico poteva sbocciare il metodo sperimentale, espressione ancora una volta di contatto con i fatti concreti e traccia luminosa per il cammino della scienza.

Per la continuità della forma mentale nostrana nel tempo, la storia italiana, come Arrigo Solmi ha ribadito, è un blocco compatto senza soluzioni di continuità.

Fu opera di Roma la prima fondazione unitaria della penisola rafforzata dall’Impero; e l’idea dell’Impero, pur in tempi oscuri, non cedette; la raccolse Dante, il quale riprendendo il pensiero virgiliano, affermò nel libro secondo di De Monarchia «essere

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