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CAPITOLO XI. — La vendetta di Elenka.

Quando giunsero ai primi palmeti, il sole cominciava a nascondersi dietro le immense ombrelle dei colossali baobab. L’oscurità cominciava a farsi sotto le cupe volte di verzura dei tamarindi e delle palme deleb e il silenzio più assoluto si succedeva all’allegro cinguettio dei pivieri e dei pappagalli che si affrettavano a guadagnare i loro nidi e ai clamori bizzarri delle innumerevoli bande di scimmie che eseguivano le più strane giravolte sui rami.

Le due rivali, legati i mahari ai tronco di una acacia gommifera, presero le carabine e si cacciarono risolutamente nel folto della foresta. Prima però di mettersi in cammino, Elenka gettò uno sguardo nella pianura e non potè frenare un gesto di diabolica gioia, vedendo i due dongolesi che si avanzavano strisciando come serpenti, fra le erbe.

— Avanti, comandò ella seccamente.

Percorsero un seicento passi, aprendosi con gran fatica il passo fra i cespugli e gli arrampicanti che s’intrecciavano in tutte le guise immaginabili, e si arrestarono ai piedi di un grande tamarindo, il quale stendeva i suoi giganteschi rami su di una piccola radura.

Le due rivali, di comune accordo, caricarono con grande attenzione le carabine, dopo di aver fatto scoppiare tre o quattro capsule per accertarsi del buono stato della batteria.

— Senti, disse Fathma con voce ferma e così glaciale che faceva fremere. È qui, in questa foresta che una di noi lascierà le ossa a cibo dei leoni e delle formiche termiti. Se tu hai paura vattene, ma vattene a Chartum, nè ardisci comparirmi giammai dinanzi a disputarmi l’amore dell’eroico Abd-el-Kerim. Lo vedi, io sono ancor generosa come il leone.

— Non parlarmi di questo, Fathma, rispose la greca con disprezzo. Voglio vedere il superbo tuo capo deformato dalla palla della mia carabina.