Pagina:La fine di un regno, parte I, 1909.djvu/535

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“E voglio questa mia disposizione abbia forza di legge di famiglia, non soggetta a giudizio di magistrato; ma giudice unica ed arbitro ne sia il mio successore, o chi lo seguirà„.


Fattoselo rileggere, sottoscrisse il testamento con mano tremante. In quegli ultimi giorni anche la sua scrittura, così chiara e nitida, aveva subita alterazione. Il patrimonio privato, del quale il Re disponeva, si componeva di rendite napoletane, siciliane ed estere, di oggetti preziosi, valutati circa 60 000 ducati, e di più che 40 000 ducati in doppie d’oro: in tutto superava i sei milioni e mezzo di ducati. La parte del duca di Calabria ascese a 566 256 ducati, e uguale fu quella della regina; al conte di Trani toccarono 756 521 ducati, e poco meno agli altri fratelli, in proporzione dell’età. Le principesse ebbero ciascuna 377 504 ducati. Nella fortuna privata, di cui Ferdinando II dispose con questo testamento, non entrava il borderò di quattro milioni di ducati, di cui aveva fatto dono al duca di Calabria quando usci di minor età. Questi quattro milioni assieme ad altri 317 186 ducati di rendita, complessivamente undici milioni, rappresentavano i risparmi, le economie, le doti delle principesse, nonché la fortuna ereditaria della defunta Maria Cristina di Savoia, perchè Ferdinando II, dopo la morte di lei, non volle possedere più nulla in Piemonte e alienò pure il palazzo Salviati, che la Regina possedeva in Roma. Il prezioso borderò era intestato a don Gaetano Rispoli, primo uffiziale controllore a Casa Reale e custodito da don Giovanni Rossi, uffiziale di ripartimento nella stessa Casa Reale. Il Rossi, nell’ottobre del 1860, lo consegnò al governo della Dittatura che lo confiscò, destinandolo ai danneggiati politici, dal 16 maggio 1848 in poi. Molti di questi rinunciarono a qualunque indennizzo. Contro tale rivoluzionario incameramento, la cui legittimità è molto discutibile, il ministro Casella protestò da Gaeta con una circolare vivacissima, diretta alle Potenze il 5 ottobre 1860,


Il 20 maggio, la gravità del male crebbe tanto, che i medici ritennero imminente la catastrofe. Erano sopravvenuti acuti dolori al polmone sinistro e l’espettorazione veniva mancando.