Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/132

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Parlando di Roma, egli soleva dire: " Col Papa, patti chiari e amici cari„.

Sopravvivono pochissimi degli arcivescovi e vescovi di quegli anni. La morte ha largamente mietuto nel campo ecclesiastico. Monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera, morì qualche anno fa, decrepito, a Molfetta, dopo che la Santa Sede avevalo privato del governo effettivo della diocesi. Il celebre monsignor Di Giacomo, di Piedimonte d’Alife, morì anch’egli, quasi novantenne, a Napoli nel 1878. Fu creato senatore nel 1863 e frequentò, nei primi anni, il Senato; ma incorse nelle ire di Roma che gli diè un coadiutore, da lui non chiesto. Morto frà Luigi Filippi, vescovo di Aquila, un francescano pieno di ardore evangelico e di liberi sensi, e morti i cardinali che erano a capo delle tre diocesi più importanti, cioè: Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, don Giuseppe Cosenza, arcivescovo di Capua, ricordato con onore anche dal Settembrini e il buon Carafa di Traetto, arcivescovo di Benevento. Il primo e l’ultimo morirono a Napoli, e il secondo nel 1863 a Capua, pianto come un padre. Tra i pastori di maggiore notorietà, ricordo, oltre a monsignor Di Giacomo di Piedimonte, monsignor Clary, arcivescovo di Bari, al quale successe monsignor Pedicini; monsignor Apuzzo di Sorrento, che più tardi successe al Capomazza come revisore e morì cardinale e arcivescovo di Capua; monsignor Zelo di Aversa, che si disse aver ottenuto il vescovato per simonia. Alla bontà ineffabile di monsignor Di Giacomo faceva strano contrasto, nella stessa provincia, monsignor Montieri di Sora, infatuato di assolutismo, zelante persecutore di liberali, amico personale del Re; e, benché non fosse vecchio, sempre tra la vita e la morte. Era emottoico. Contrastavano in Terra di Bari i vescovi di Andria e di Conversano: un fanatico rude, come monsignor Longobardi, e uno spirito veramente apostolico e signore, se non di nascita, di maniere, come monsignor Mucedola, il quale non volle firmare la petizione per l’abolizione dello Statuto. Chiamato nel giugno del 1851 ad audiendum verbum, in Napoli, vi andò senza paura. Vide prima il Peccheneda e poi, a Caserta, il Re. All’uno e all’altro disse che non aveva firmato quel documento, avendo giurata la Costituzione, ma lasciava liberi i suoi