Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/313

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nei giornali, quasi sempre compiacenti. Rifritture rettoriche, con musica, sonetti ed odi. Prosatori, poeti e dilettanti di musica, specialisti di queste accademie, erano molti. Anche dalle provincie giungevano ai fogli notizie di saggi e di accademie; e come, in un giorno del 1858, si lesse nei giornali, che nel collegio Vibonese di Monteleone vi era stato un pubblico saggio, nel quale si erano distinti i due giovanetti Bruno Chimirri e Michele Francica, così in un altro giorno dello stesso anno fu stampato l’inno, che la compagnia Rizzuti cantò nel regio teatro Borbone di Vasto, per il genetliaco di Ferdinando II, e che cominciava cosi:

Coro:

Questo giorno andiam festando
Tutti lieti, tutti insieme;
Nacque in questo di Fernando
Il Sovran che Dio ci diè.
Nostro amore, nostra speme,
L’ama ognun qual Padre e Re

Prima voce:

Pure un di squassar funeste
Le sue insegne ad ostil gente,
Là sui campi di Freneste
Il suo brando sfolgorò:
D’anarchia l’idra furente
Ei percosse ed atterrò.

Seconda voce:

Ma la voce del perdono
Spense quella del rigore i
Ei dall’alto del suo trono
Vide, vinse e perdonò;
E de’ gaudi d’ogni core
Tutta Europa rimbombò.

Poeta don Giambattista Cely Colajanni, cavaliere costantiniano, e musicista il maestro Dermino dei conti Maio. L’inno dà la misura di quella comica letteratura politica, della quale si ebbero copiosi saggi dopo il 1848 e più tardi per il matrimonio del duca di Calabria, per la morte di Ferdinando II e l’avvento al trono di Francesco.