Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) II.djvu/157

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L’indipendenza, ecco la parola magica che politicamente esaltava il siciliano di qualunque grado e creava una vera eguaglianza, anzi la sola eguaglianza sociale, nell’odio contro i napoletani. Sotto quella vernice di gaiezza e di benessere covava un fuoco sempre vivo di odii e di rancori verso i napoletani. I nuovi tempi maturavano, e la Sicilia dei siciliani, chiunque ne fosse il Re, anche un tiranno, pur di vederlo nella vecchia Reggia normanna, con una magnifica Corte, accendeva le fantasie. Un Niruni o chiano ’u palazzu, e più comunemente: 'u Riuzzo o chiano ’u palazzu, ecco l’ideale ed ecco il lievito del malcontento, che in quei mesi si andava addensando. Se il fondo del carattere siciliano è l’orgoglio, le manifestazioni dell’orgoglio sono infinite, e sovente, per un eccesso di furberia, prendono le forme più umili e carezzevoli. Se l’accattone, non mai lacero e sporco, stendendo la mano si studia di umiliarsi il meno che può; se il popolo ribelle alle prepotenze vi soggiace con falsa rassegnazione, quando non può reagire, senza dimenticar mai; se il signore simula e dissimula a perfezione e non si lascia scoprire, nondimeno la vita esteriore dell’Isola, in quegli ultimi mesi del 1859, non rivelava davvero ciò che avvenne poco tempo dopo: la tentata insurrezione del 4 aprile e poi lo sbarco di Garibaldi a Marsala agli 11 di maggio e il suo ingresso a Palermo il 27 di quel mese. Gli avvenimenti nel resto d’Italia fecero precipitare le cose nella Sicilia.